L’analisi della crisi finanziaria in atto, ultima di una lunga serie prodottasi a partire dall’inizio degli anni Novanta, rafforza la necessità, che molti economisti non aderenti al mainstream avevano per la verità già delineato da tempo, di rispondere al mutato ruolo della finanza interna ed internazionale.
Questa, da ancella dell’economia reale si è progressivamente trasformata in un autonomo strumento di rischiosa valorizzazione del capitale, con disseminazione sociale del rischio connesso a tale valorizzazione. L’attuale crisi rende evidente che la rischiosità, lungi dal rimanere confinata agli ambiti e ai soggetti consapevolmente partecipi dei mercati finanziari, viene facilmente traslata sulla collettività sia direttamente (si pensi ai pacchetti di prodotti finanziari venduti a ignari risparmiatori) sia indirettamente (attraverso i salvataggi che finiscono per gravare sui contribuenti e sugli utilizzatori dei servizi pubblici). Ciò è particolarmente pesante in relazione ai Fondi Pensione in tutti quei casi in cui le normative che ne regolano la gestione non prevedano idonee salvaguardie e garanzie di rendimento. La recente (ri)pubblicizzazione argentina rappresenta il degno epilogo delle politiche ispirate dal mantra liberista in questo campo. Lo strumento fiscale, all’interno di una più ampia azione di regolamentazione degli strumenti e dei soggetti finanziari, può contribuire a limitare le conseguenze avverse (sul piano della distribuzione e dell’efficienza sociale) della socializzazione del rischio che consegue alla crisi. A tale proposito due recenti proposte statunitensi possono rappresentare un utile punto di riferimento per politiche europee di tassazione delle attività finanziarie.
Due proposte dagli USA
Negli Usa, dove non esiste l’IVA ma viene applicata un’imposta sulle vendite (sales taxes and use taxes – che rappresentano le principali fonti di finanziamento dei governi statali e locali) si è da qualche tempo avviata una discussione sulla possibilità di introdurre un’imposta generalizzata e proporzionale sul valore delle transazioni, reali e finanziarie. Nel 2004 il Congressional Research Service (CRS[1]) la considerava una proposta atta a semplificare il sistema e a ridurre i costi di adempimento e di gestione. Con riferimento all’ambito specifico delle transazioni finanziarie, poi, il CRS riteneva che una simile imposta avrebbe potuto prevenire le transazioni speculative in strumenti finanziari e recuperare indirettamente gettito da attività esercitate in nero.
Più di recente, Jeffrey Frankel[2] ha proposto al Congresso USA di accompagnare l’acquisizione dei titoli tossici (il Trouble Asset Relief Program, TARP) con uno strumento definito “nuovo”: a small tax on securities market transactions; diciamo una versione speciale dell’imposta (generale) sulle transazioni discussa dal CRS. Secondo Frankel tale imposta era, tra le altre cose, fortemente motivata politicamente quale alternativa alle prebende settoriali e localistiche introdotte nella seconda versione, poi approvata, del TARP. In effetti, anche sulla base di esperienze precedenti, Frankel non sembra dare molto peso all’effetto (negativo o positivo) di una simile imposta sulla volatilità dei titoli, ma sottolinea invece il valore politico, e comunicativo, dell’imposta e del gettito che verrebbe ottenuto.
La rivincita della Tobin Tax
Tobin Tax è esplicitamente citata sia nello studio del CRS sia nell’articolo di Frankel.
Nelle intenzioni di James Tobin, premio Nobel per l’economia nel 1978, la Tobin tax avrebbe dovuto colpire un insieme di operazioni di acquisto di strumenti finanziari denominati in una moneta ed effettuate attraverso pagamenti in un’altra moneta mediante l’applicazione, ad ogni operazione, di un’aliquota fissa che poteva collocarsi tra lo 0,05% e lo 0,25% del valore dell’operazione. L’obiettivo fondamentale dell’imposta era quello di gettare dei “granellini di sabbia” negli ingranaggi della finanza internazionale, riducendo la volatilità dei cambi e quindi dando un po’ più di agio alle politiche di aggiustamento macroeconomico (nazionali ed internazionali). In estrema sintesi, l’idea di fondo è che le transazioni di natura non finanziaria si compiono generalmente attraverso un numero di operazioni nettamente inferiore rispetto a quelle di natura finanziaria – e queste ultime attraverso un numero di operazioni ancora minore di quelle poste in essere a fini esclusivamente speculativi – cosicché, solo le seconde verrebbero interessate dall’imposta in modo significativo, nonostante la “bassa” aliquota. Questa indiretta selettività dell’imposta ne è una caratteristica cruciale in quanto sono le transazioni di natura finanziaria (e in particolare quelle di natura speculativa) quelle che rendono volatili i tassi di cambio. Tuttavia, della Tobin Tax possiamo dare una più ampia interpretazione e collocarla all’interno del dibattito sugli strumenti di controllo dei flussi internazionali di capitale (depositi infruttiferi, contingentamento delle esportazioni di capitale, ecc.). In questa più ampia e interessante prospettiva[3], il peso dell’aliquota può certamente essere maggiore fermo restando che l’obiettivo prioritario della tassa non è il gettito ma il controllo sui movimenti di capitale e, per tale via, l’allentamento dei vincoli che le variazioni dei tassi di interesse internazionali pongono alle politiche macroeconomiche di sviluppo e di redistribuzione.
La discussione sulla Tobin tax, avviata negli anni immediatamente successivi alla fine di Bretton Woods, e riavviata dopo le crisi dello SME nel 1992-93 e del peso messicano nel 1994, si è bruscamente interrotta alla fine degli anni Novanta. Nel 1996, il Senatore Bob Dole insieme ad altri tre colleghi presentarono al Senato americano una proposta legislativa dal titolo (abbreviato) “Prohibition on United Nations Taxation Act 1996“. Con tale provvedimento si faceva divieto ai funzionari delle Nazioni Unite o di loro Agenzie di elaborare e promuovere schemi di tassazione internazionale basati sulla Tobin tax. Purtroppo questa proposta di legge conseguì il suo obiettivo e, dal 1996 in avanti, negli studi delle Nazioni Unite non si trova più traccia di proposte ispirate alla Tobin tax. Con il ritorno al governo dei repubblicani negli USA, e di fronte alla globalizzazione apparentemente trionfante e inarrestabile, fino a poco tempo fa la Tobin tax sembrava destinata a rimanere nel libro dei sogni di qualche associazione non governativa.
Tuttavia, la Tobin tax è chiaramente l’antenato nobile delle proposte del CRS e di Frankel da ultimo richiamate e la semplice discussione della loro possibile introduzione rappresenta la miglior risposta che i fatti potevano dare alla politica seguita nel 1996 dal Congresso USA.
Le due proposte brevemente esaminate in precedenza condividono molti degli elementi della Tobin tax, in particolare l’idea di tassare gli scambi, sebbene in modo proporzionale al valore degli stessi, oltre ai redditi che da essi conseguono. Ciò è giustificato dal fatto che la tassazione dei redditi segue degli schemi (ad esempio, la distinzione tra rendimenti fissi e contingenti) che si sono rivelati incapaci di evitare l’elusione fiscale attuabile attraverso i nuovi strumenti finanziari.
Una proposta per l’Europa
La differenza principale tra la Tobin tax e le imposte sulle transazioni finanziarie sta ovviamente nell’oggetto, che in un caso è limitato alle transazioni in valuta e nell’altro si estende a tutte le transazioni finanziarie, comprese quelle che avvengono senza cambio di valuta. Le ragioni addotte nello studio del CRS e nell’articolo di Frankel sembrano ugualmente valide anche per l’Europa, sebbene questa sia caratterizzata da un tasso di innovazione finanziaria, e da una deregulation del sistema bancario, meno marcati rispetto a quelli americani. Attraverso un accordo con la nuova amministrazione USA e con le maggiori piazze finanziarie mondiali si potrebbe pensare di arrivare ad un’Imposta Europea sulle Transazioni Finanziarie, realizzate all’interno dei singoli mercati nazionali indipendentemente dalla divisa in cui avvengono le transazioni. Questa riprenderebbe l’idea fondamentale di tassare, in misura da valutare con prudenza ma senza timori reverenziali, il controvalore degli scambi finanziari in modo da incidere prevalentemente sui contratti e sugli strumenti finanziari di più accentuato contenuto speculativo. Avrebbe, se accompagnata da altre misure (controllo delle cartolarizzazioni dei mutui, sorveglianza sulla gestione dei portafogli dei fondi pensione, ecc.) la finalità di contribuire alla stabilizzazione dei mercati e di raccogliere sul territorio europeo un significativo gettito da finalizzare all’aumento del (magro) budget dell’Unione. Ma, avrebbe anche il vantaggio di correggere in senso equitativo l’attuale sbilanciamento della struttura della tassazione così come questa si caratterizza in quasi tutti i Paesi europei. In Europa, infatti, è alta la tassazione dei redditi, e in parte dei profitti, ma essa penalizza fortemente il lavoro e le imprese a vantaggio dei redditi di natura finanziaria. Se non si intendono trattare le rendite finanziarie in modo sostanzialmente analogo agli altri redditi, allora un riequilibrio (ed un gettito) lo si può ottenere tassando le transazioni che ne sono il presupposto. Infine un’imposta di questo tipo andrebbe nella direzione recentemente indicata da Stiglitz[4] nella sua discussione su crescita sostenibile e politiche di sinistra. La sostenibilità della crescita non riguarda solo l’ambiente naturale ma anche il finanziamento dei consumi (compresi quelli sociali) e della spesa sociale che non può essere perennemente affidato all’indebitamento o limitata da restrizioni di gettito. La spesa sociale ed infrastrutturale deve essere aumentata e per questo occorrono fonti di finanziamento nuove, ad ampia base e diverse da quelle tradizionalmente date da redditi e profitti.
[1] Congressional Research Service, Transaction Tax: General Overview, http://assets.opencrs.com/rpts/RL32266_20041202.pdf
[2] J. Frankel, How to Make TARP Politically Acceptable: Add a Tax on Securities Transactions, http://www.rgemonitor.com
[3] Si veda E. Brancaccio, La Tobin Tax tra compatibilismo e conflittualismo, CNEL, Roma, Marzo, 2007. Brancaccio sostiene vigorosamente la concezione più ampia della Tobin Tax.
[4] J. Stiglitz, “Turn Left for Sustainable Growth”, Economists’ Voice, http://www.bepress.com/ev/, settembre 2008