Le cause immediate della crisi sono fatte spesso risalire all’assenza di regolamentazione e alla politica espansiva della Fed che, mantenendo i tassi d’interesse artificialmente bassi, avrebbe provocato un’eccessiva offerta di risparmio. Come è ampiamente spiegato nei noti modelli di selezione avversa, quest’ultima avrebbe, a sua volta, provocato la formazione di un pool di debitori sempre più scadente con le conseguenze che sono ormai sotto gli occhi di tutti.
Secondo un articolo dell’Economist dello scorso gennaio un benefico “flow” di risparmio sarebbe diventato una disastrosa “flood” ma l’inondazione sarebbe dovuta più alle “global imbalances” generate all’estero che un frutto endogeno della economia e della politica americana.
In effetti, il governatore Bernanke sostiene da molto tempo che il ruolo della Fed nell’espansione del credito è stato marginale e che la causa ultima della crisi è stata una scorpacciata di risparmi (saving glut) cui gli Stati Uniti sono stati costretti a causa del massiccio afflusso di risparmi proveniente da altri paesi (v. su questo anche Sergio Cesaratto, new.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/a-sinistra-della-crisi/).
C’è qualche cosa di simpaticamente infantile nella formulazione della tesi del Governatore della FED. A molti di noi (per quanto mi riguarda, a casa della mamma) capita di attribuire le scorpacciate, e le crisi digestive che esse provocano, all’ottimo e sovra-abbondante cibo che viene cucinato. Il vero limite della tesi di Bernanke non sta tuttavia tanto nell’infantilismo della sua formulazione ma nell’inesattezza dei suoi contenuti. Come mostrano i dati contenuti nel paper della Banca di Francia di Moec e Frey, negli altri paesi non c’è stata una sovrabbondanza di risparmi ma piuttosto un digiuno d’investimenti. Negli ultimi anni, nel mondo, i risparmi non sono cresciuti. Invece, specialmente al di fuori degli Stati Uniti, sono diminuiti gli investimenti. In altre parole, l’abbondanza di cibo in America sarebbe stata il frutto di un blocco dei sistemi di digestione dei vicini.
Si potrebbe sostenere che, in questa situazione, gli americani dovevano generosamente digerire anche per conto degli altri paesi e fornire loro trasfusioni di cibo pre-digerito. Parte del risparmio assorbito dall’America era infatti iniettato sotto forma d’investimenti diretti nella circolazione dei paesi colpiti dal blocco del loro sistema digerente.
Non è dunque colpa dei vicini se essi non sono riusciti a creare adeguate opportunità d’investimento, per di più intossicando gli americani con la loro inondazione di risparmi?
Il problema è che le lobby legate alle multinazionali americane, facendo pressione per la nuova architettura del commercio internazionale partorita a Marrakesh nel 1994 hanno avuto un ruolo niente affatto marginale nel causare il blocco dei sistemi digestivi dei loro concorrenti.
Partiamo dal 1992 quando George Bush Senior conclude una presidenza piena di successi in politica estera in un quadriennio che vede, fra l’altro, il crollo delle economie socialiste e la disintegrazione dell’Unione Sovietica. Eppure lo slogan “it’s the economy stupid!” basta a fargli perdere le elezioni contro Clinton. La causa non è tanto la crisi congiunturale iniziata nel 90 ma la consolidata percezione che il “modello americano” sia perdente rispetto a quelli alternativi giapponesi e tedeschi. Nel decennio precedente si sono consumati fiumi d’inchiostro per descrivere i miracoli del management giapponese e suggerire i vari modi in cui gli americani avrebbero potuto imitarlo.
Alla fine degli anni 90 il quadro si è capovolto. Gli Stati Uniti (e l’Inghilterra) sono diventati il modello da imitare e gli eroi di ieri (non solo Germania e Giappone ma, dopo la crisi del 97, anche tutte le tigri asiatiche) si affannano a ristrutturare le loro economie sulle orme del cosiddetto modello anglo-americano. Frattanto l’economia cinese ha un rapidissimo sviluppo. Cosa ci porta a questo improvviso rovesciamento della situazione?
La spiegazione potrebbe essere fatta risalire al solito ritornello liberista: solo gli americani (e gli inglesi) avrebbero riscoperto improvvisamente le virtù del mercato, offrendo così numerose opportunità d’investimento precluse ai loro rigidi concorrenti.
E, tuttavia a ben guardare, non sono state le virtù della concorrenza ma i vantaggi del monopolio intellettuale a far riguadagnare rapidamente terreno agli Stati Uniti rispetto alle altre economie occidentali. Infatti, nella prima metà degli anni 90, gli Stati Uniti non hanno più rivali militari e politici globali e possono riorganizzare l’economia mondiale in un modo diverso che valorizzi al massimo la loro leadership scientifica e tecnologica e soprattutto le loro posizioni di monopolio.
Le caratteristiche salienti del nuovo mondo sono contenute nei TRIPS firmati a Marrakesh il 15 Aprile del 1994. Significativamente, i TRIPS costituiscono l’annesso 1C dell’accordo con cui viene fondato il WTO.
Il preambolo dei TRIPS recita come cosa ovvia che “intellectual property rights are private rights” come tutti gli altri diritti di proprietà privata. Eppure questa ovvietà era sconosciuta a un economista dell’innovazione del calibro di Schumpeter ed è stata recentemente messa in discussione nel bel libro di Boldrin e Levine Against Intellectual Monopoly. Se il riconoscimento dei diritti di proprietà (inclusi quelli intellettuali) costituiva la base naturale del libero scambio, la ratificazione dei TRIPS non poteva non costituire un annesso degli accordi del WTO e un requisito obbligatorio per accedere al commercio internazionale. Diversamente da tutti i precedenti accordi internazionali relativi alla proprietà intellettuale, l’inclusione dei TRIPS nella costituzione del WTO comportava un efficace meccanismo per far rispettare la proprietà intellettuale. Gli Stati potevano ora essere disciplinati mediante le istituzioni dello stesso WTO e, in casi estremi, si sarebbe potuto limitare l’accesso al commercio internazionale ai “ladri” di proprietà intellettuale.
A dispetto dell’accattivante retorica declamante libero scambio e proprietà privata, gli accordi di Marrakesh introducono surrettiziamente super-tariffe tali da far impallidire il protezionismo più spinto. Con i TRIPS i diritti di proprietà intellettuale diventano dei monopoli globali e cioè, in un certo senso, dei dazi doganali dal valore quasi infinito. Non solo i concorrenti degli altri paesi non possono esportare il bene nel paese del monopolista intellettuale ma hanno anche il divieto di produrlo nel loro stesso paese. Quando alcune multinazionali di qualche paese si organizzano in “patent pools”, la desertificazione economica di quel settore negli altri paesi diventa inevitabile e sembra non lontano dalle passate imposizioni dell’Inghilterra alle sue colonie e in particolare, all’India (Marcello De Cecco, Money and Empire, Rowman and Littlefield, 1975).
Salvo qualche notevole eccezione come Krugman abbiamo assistito in questi mesi a un coro di allarmi per i danni di un incombente protezionismo. Si fa notare come uno degli effetti peggiori delle crisi finanziarie sia che esse possono disintegrare il libero scambio. E tuttavia, il rapporto fra i due fenomeni presenta una complessità del tipo problema uovo-gallina che non ammette facili soluzioni.
E’ certamente vero che la crisi sta portando ad atteggiamenti protezionistici e a ritorni di nazionalismo economico.
E’ però anche vero che il protezionismo, celandosi sotto le sacre vesti dei diritti di proprietà privata, ha contribuito a generare la crisi finanziaria. Esso ha fatto inizialmente solo scemare le opportunità d’investimento fuori dagli Stati Uniti mentre questi ultimi, grazie agli investimenti diretti delle loro multinazionali, hanno per un certo tempo digerito anche per gli altri. Infatti, come mostrano Moec e Frey la crisi è stata preceduta, prima di tutto, da una caduta degli investimenti fuori dall’America. In parte, questa caduta è stata inizialmente attenuata dagli investimenti diretti delle multinazionali dotate di un’imbattibile ricetta a base di monopolio intellettuale americano e lavoro cinese a basso costo.
Alla caduta degli investimenti degli altri paesi si è poi aggiunto un graduale blocco digestivo delle stesse imprese multinazionali americane. Già nel luglio 2005 l’Economist parlava di un “corporate savings glut” e nel sottotitolo notava come ormai le grandi corporation, ancora di più delle economie emergenti, fossero diventate i leader mondiali della corsa globale verso la frugalità. Lo stesso articolo faceva poi riferimento al famoso paradosso della frugalità di Keynes secondo cui se tutti vogliono risparmiare dovrà (in assenza d’investimenti) calare il risparmio… anche se passando naturalmente prima per bolle speculative e varie “innovazioni finanziarie” (vedi Marcello De Cecco, www.econ-pol.unisi.it/blog/?p=449).
In conclusione, se le crisi finanziarie hanno provocato il protezionismo, il superprotezionismo della proprietà intellettuale ha fatto calare gli investimenti. Ciò è avvenuto in due fasi (largamente sovrapposte nel tempo) e secondo due meccanismi.
Nella prima fase, dopo i TRIPS, si è avuto il lancio del modello cino-americano e una corsa a investimenti tesi a consolidare i monopoli intellettuali americani. Mentre si aprivano nuovi spazi per le compagnie americane superdotate di queste “risorse”, si chiudevano molte opportunità d’investimento autonomo per il Giappone e per le ex-tigri asiatiche che non avevano né le dotazioni monopolistiche americane né i bassi costi cinesi. La crisi asiatica del 1997 rappresenta il culmine di questa fase.
Nella seconda fase, secondo i meccanismi descritti nelle note tragedie degli anti-commons, i monopoli intellettuali mondiali sono diventati troppo pervasivi e hanno cominciato a bloccarsi a vicenda. A questo punto comincia a incepparsi anche il meccanismo d’accumulazione dei grandi “proprietari di conoscenza”.
La caduta degli investimenti ha quindi creato alcune delle condizioni che hanno portano alla crisi finanziaria, e quest’ultima ha a sua volta portato il livello degli investimenti verso nuovi precipizi da cui sarà difficile risalire senza un notevole numero di misure di politica economica. Tra di esse non dovrebbe mancarne una che, coniugando le politiche keynesiane con la capacità della conoscenza di essere usata infinite volte senza deteriorarsi, generi un supermoltiplicatore degli investimenti. Sostegno alla domanda aggregata e riappropriazione della conoscenza possono costituire due facce di una stessa politica tesa a liberare l’innovazione dalla gabbia del monopolio intellettuale e a fornire più opportunità d’investimento per tutti.
*L’autore è professore ordinario di politica economica nell’Università di Siena. Questo articolo esce anche sul sito www.econ-pol.unisi.it/blog