Le economie di mercato, o se si preferisce capitaliste, sono condannate a crescere. Una crescita apparentemente imperitura che, però, da almeno tre lustri mostra, non solo in Italia, evidenti segnali di stasi. Ci sono poche strade, delineate in letteratura macroeconomica e nel dibattito tecnico-scientifico, perché questa crescita – scongiurando lo spettro della deflazione – possa riprovare a mostrare i suoi effetti. O si mettono in campo misure finalizzate al recupero del potere di acquisto delle famiglie per rilanciare i consumi; o si creano le condizioni per incentivare una consistente crescita degli investimenti, pubblici e privati, e quindi riattivare la domanda interna. Certo l’ideale sarebbe, compatibilmente con le reali risorse disponibili, seguire contemporaneamente entrambe le piste. Tuttavia, osservando le variazione del PIL in Italia tra il 2008 e il 2015 è la componente investimenti ad aver maggiormente influito negativamente sulla dinamica del PIL. Questi, infatti, si sono ridotti di ben 81 miliardi di euro, dei quali circa 70 tutti riconducibili agli investimenti privati mentre quelli pubblici si sono ridotti di 11 miliardi ad un tasso del -23% (Finanziare la crescita. Chi ci mette le risorse?, di Marco Nicolai e Walter Tortorella, 2016).
Grafico 1 Variazione del PIL in Italia, confronto 2008/2015
Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati Istat, anni vari
Ovvero, con una crescita del PIL dal 2008 al 2015 dello 0.2%, in questi ultimi otto anni il Paese sembra essere stato quasi fermo; un immobilismo scongiurato soprattutto dalle esportazioni nette (+4.0%) ed, in percentuale inferiore, da una tenuta dei consumi privati (+1.6%) che nel solo corso del 2015 sono raddoppiati. Dopo un andamento sempre positivo degli investimenti lordi in Italia dal 1995 fino al 2007, gli ultimi dati disponibili evidenziano che siamo tornati a livello del 2001, ossia a quindici anni fa.
Grafico 2 Gli investimenti lordi in Italia (indice anno base 1995=100), 1995-2015
Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati Istat, anni vari
Ciò che contribuisce ad alimentare le preoccupazioni non sono solo le dinamiche degli andamenti delle entità finanziarie quanto il sentiment che grava sulle decisioni di investimento. Allora una proxy interessante su questo versante è data dall’andamento degli investimenti diretti esteri (IDE) in Italia e dell’Italia all’estero. I primi, dal 2001 ad oggi, sembrano quasi voler sottolineare una rottura di un rapporto fiduciario verso il nostro Paese che, bene o male, sino al 2007 aveva tenuto abbastanza bene.
Grafico 3 Gli investimenti diretti esteri in Italia e dall’Italia all’estero (milioni di dollari americani), 2001-2014
Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati UNCTAD, anni vari
Dopodiché, forte instabilità rispetto ad un clima complessivo di incertezza a tal punto che nel 2014 gli IDE, in valore assoluto, sono di parecchio sotto il dato 2001. Al contempo, se si guarda all’andamento degli IDE italiani all’estero, grosso modo e con le debite proporzioni, eccezione fatta per il periodo horribilis 2008 – 2010, per molte imprese italiane l’erba del vicino è sempre più verde. Ed, in effetti, queste sembrano non aver mai smesso di guardare con un certo interesse ai mercati esteri (prevalentemente quello europeo e asiatico), interesse talvolta addirittura maggiore a quello nostrano, per le loro decisioni di investimento che certo non hanno contribuito positivamente all’andamento complessivo degli investimenti lordi in Italia.
Insomma l’evidente clima diffuso di stagnazione non sembra essere frutto di una crisi passeggera ma di un crash del sistema economico-produttivo in cui la finanziarizzazione dell’economia ha certamente contribuito ad aggravare la situazione. Contribuito, ma sarebbe miope attribuirgli ogni responsabilità. Chi opera sui mercati finanziari fa il proprio mestiere e se l’immagine che si restituisce agli investitori/scommettitori di periodo medio-breve è quella di un Paese a forte instabilità, in cui alta è l’incertezza delle transazioni e sclerotizzata la struttura istituzionale-amministrativa, altrettanto volatili e predatori saranno gli investimenti privati. Se a questo si aggiunge che gli investimenti pubblici si sono a loro volta schiantati contro il muro comunitario dell’austerity ne consegue che la progressiva diminuzione del nostrano prodotto interno lordo degli ultimi anni di certo non può essere considerata accidentale. Invero, stando agli ultimi dati dello European economic forecast, winter 2016[1] sembrerebbe che il nostro Paese è stato tra quelli che meno ha fatto politiche in deficit. Ciononostante non è servito a nulla, anzi questa scelta politica, prima ancora che opzione economica, ha sfavorito la crescita (per la quale l’Italia detiene record negativo in Europa) senza favorire la contrazione del debito pubblico.
In ogni caso i numeri sembrano fare emergere che solo da un nuovo disegno strategico delle politiche di stimolo agli investimenti è possibile sperare in una ripresa di peso della domanda aggregata e quindi del sistema economico nazionale. In questo, ovviamente, l’intervento pubblico regolatore, unitamente a quello finanziatore, è largamente auspicabile anche perché è molto improbabile che, nel periodo breve, oltre ad una boccata di ossigeno per la crescita dei consumi (al di là degli “ottanta euro”), si possa immaginare un rinascimento economico che avvenga prevalentemente attraverso investimenti pubblici. Investimenti pubblici che scontano tempi di resa, o meglio di reazione, mediamente lunghi quando non lunghissimi. L’esperienza di questi anni, ad esempio dei fondi strutturali, dimostra che non bastano dai sette ai dieci anni per chiudere l’intero iter per un investimento pubblico di media dimensione: dei 550 progetti FESR 07-13, con una taglia finanziaria compresa tra i 5 ed i 10 milioni di euro, più dei due terzi non è stato ancora terminato. E d’altra parte degli oltre 51 miliardi dei fondi strutturali 2014-2020 a distanza di tre anni dall’avvio solo il 2% risulta al momento speso. Tornare ad investire risorse pubbliche, allora, serve solo se si riesce a dare seguito ai suoi effetti moltiplicatori e a fare da traino ad investimenti privati che devono essere accompagnati da una azione politica riformatrice corale e radicale. Un’azione in grado di far crescere produttività del lavoro, ridurre la pressione fiscale, abbattere gli effetti distorsivi della corruzione, lasciare più spazio all’imprenditività innovativa, diserbare la giungla normativa che dopo 25 anni di pseudosemplificazione ci ha restituito una pubblica amministrazione scarsamente performante e sempre più invasiva.
* Economista, è Capo Dipartimento Economia Locale e Formazione della Fondazione IFEL.
[1] Commissione europea, European economic forecast, winter 2016, institutional paper 020, febbraio 2016.