«Ma vogliamo proprio fare dell’Italia uno Stato federale, creando tanti piccoli staterelli che lotterebbero l’un contro l’altro per contendersi le scarse risorse del Paese?»
P. Togliatti, Assemblea Costituente, 11 marzo 1947
La disgregazione dello Stato, sia nella sua struttura unitaria, ereditata dal risorgimento, che nella sua componente sociale, impressa dalla Costituzione repubblicana, è un processo che va avanti da decenni. La recente approvazione, da parte del Senato, del disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata non rappresenta, pertanto, un elemento di discontinuità con il recente passato ma può essere letta come uno dei molteplici tasselli che contribuisce a incrinare la razionalità della costruzione statale. L’attitudine disgregatrice del regionalismo differenziato non è, cioè, una deviazione frutto dell’attuale contingenza politica, ma è del tutto coerente con la sua genesi. Non c’è dubbio che gli esiti di questo processo attentino all’unità nazionale. L’orientamento antiunitario che sta assumendo l’attuazione del regionalismo differenziato è, tuttavia, la logica conseguenza del modo distorto in cui è stato impostato il dibattito sull’autonomia a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, suscitato dalla spinta politico-ideologica della Lega Nord, al tempo dichiaratamente secessionista. La questione autonomista è così diventata un elemento estraneo all’impianto solidarista e personalista tracciato dalla Costituzione repubblicana, finendo per trasformarsi in uno dei tanti aspetti del ben più ampio disegno neo-liberale, che aveva il fine (che si può assumere oramai realizzato) di minare il tessuto connettivo solidaristico della Repubblica e, di conseguenza, la stessa funzione redistributiva dello Stato[1].
Se queste sono le premesse, è chiaro che gli esiti di questo processo per il Sud saranno gravi in termini di diritti di cittadinanza (vale a dire che nel Sud ci saranno ancor meno diritti collegati alla sanità, ai trasporti, al welfare, ecc.). Come è noto, la perdita di diritti per il Mezzogiorno è un processo in atto da decenni. La stessa parola «Mezzogiorno» è stata cancellata dalla Costituzione nel 2001, con la riforma del Titolo V. Oggi in Costituzione non ci sono più i riferimenti al Mezzogiorno che i Costituenti, nel 1948, per ribadire il carattere fortemente solidale del nostro patto costituzionale, ritennero doveroso inserire. A scomparire dal testo fondamentale nel 2001 è stato, poi, anche l’interesse nazionale, incredibilmente ritenuto un concetto centralista e obsoleto. Cosa singolare, peraltro, anche per gli ordinamenti federali.
Questa modifica costituzionale ha contribuito ad incrinare, al tempo stesso, il ruolo dello Stato unitario (cioè la sua stessa capacità di realizzare politiche volte alla soddisfazione di interessi unitari) assieme alla funzione redistributrice collegata alla declinazione sociale e solidarista assunta dal nostro ordinamento nel secondo dopoguerra. Nel 2001, infatti, allo stato centrale sono state attribuite limitatissime competenze, mentre sono state ampliate a dismisura quelle delle Regioni, che si sono estese ben oltre l’ambito materiale ad esse attribuito dalla Costituzione del 1948, che aveva improntato il riparto al criterio (logico, prima ancora che giuridico) della dimensione dell’interesse, che circoscrive il potere regionale all’interno di materie attinenti chiaramente a una dimensione regionale dell’interesse (come, ad esempio, «lavori pubblici di interesse regionale» e via dicendo). Nel 2001, al contrario, tale criterio è stato del tutto pretermesso e alle regioni sono state affidate materie che riguardano, al tempo stesso, diritti primari dei cittadini e che ineriscono chiaramente a interessi di dimensione nazionale: dall’ordinamento della comunicazione alla tutela della salute fino alle grandi reti di trasporto e alla produzione, trasporto e distribuzione «nazionale» – si avete letto bene, nazionale – dell’energia. Del tutto ‘coerente’ con tale assetto è, dunque, risultato anche l’inserimento nel testo della Costituzione della possibilità per le regioni di chiedere l’autonomia differenziata.
L’art. 116.3 Cost., inserito nel 2001, infatti, prevede che le regioni, oltre gli smisurati (nel senso descrittivo, in quanto superano la dimensione regionale dell’interesse) poteri già attribuiti stabilmente dal novellato art. 117 Cost., ne possano ottenere addirittura ulteriori, contrattando autonomamente e singolarmente con lo Stato, come se si trattasse di soggetti (Stato e regioni) che si trovano fra di loro in un rapporto paritario.
Dopo oltre un decennio di disinteresse per questo articolo, interrotto solo dalla presentazione del d.d.l Lanzillotta nel 2007 durante il governo Prodi II (non approvato per la caduta anticipata dello stesso governo e la conseguente fine della legislatura), la questione del regionalismo differenziato è ridiventata attuale a metà del decennio scorso.
L’attuazione di questo articolo è stata rimessa all’ordine del giorno a partire dal 2014, quando il Veneto approvò una legge per indire un referendum regionale che chiedesse ai cittadini di pronunciarsi, oltre che su cose palesemente inammissibili dal punto di vista della compatibilità costituzionale, come la secessione o trattenere i nove decimi del gettito fiscale riscosso sul territorio regionale, anche sull’attuazione di questo articolo, il 116.3 Cost. Sebbene tale legge sia stata dichiarata incostituzionale, la Consulta, con una motivazione debole[2], lasciò in vita la sola richiesta referendaria del Veneto volta a domandare ai cittadini se volessero l’attuazione dell’art. 116.3 Cost. Nel 2017 si svolsero così ben due referendum, perché al Veneto si accodò la Lombardia. Da allora, il regionalismo differenziato è diventato una priorità di tutti i governi che si sono succeduti, che lo hanno assunto a punto programmatico essenziale: da Gentiloni al Conte I, al Conte II fino al governo Draghi. In nessun caso, tuttavia, la procedura si è conclusa, complici anche i frequenti cambiamenti dell’esecutivo e le notevoli difficoltà derivanti dall’interpretazione di una disposizione davvero oscura.
Questi numerosi tentativi di attuazione, infatti, hanno reso consapevole la classe politica che l’articolo 116 Cost. (come, del resto, anche gli altri della riforma del 2001) è scritto davvero malissimo: dalla procedura, che è solo abbozzata, agli aspetti sostanziali, che vanno dalla ripartizione delle risorse erariali per finanziare le nuove competenze fino al numero di materie che possono formare oggetto dell’intesa fra lo stato e le regioni: il tenore della disposizione lascia aperta infatti la possibilità che le regioni chiedano ed ottengano tutte le competenze di cui al III comma del 117 Cost., oltre quelle relative a istruzione, ambiente e giustizia. Si è fatta pertanto strada l’idea che fosse necessaria l’approvazione di una legge (in realtà, non richiesta espressamente dall’art. 116.3 Cost.) che sciogliesse i numerosi nodi problematici posti dall’attuazione di questa disposizione, chiarendo non solo alcuni aspetti procedurali ma dettando anche qualche indirizzo di carattere sostanziale[3].
Il disegno di legge Calderoli, da poco approvato dal Senato della Repubblica, risponde proprio a questa esigenza. Esso punta, cioè, a rendere eseguibile una diposizione costituzionale oscura, anche se, occorre avvertire, l’approvazione definitiva del disegno di legge non determinerà direttamente alcun cambiamento sostanziale nei rapporti tra lo stato e le regioni. Il cambiamento vero sarà prodotto solo successivamente alla sua approvazione, cioè dalle eventuali future intese che si dovessero realizzare fra lo Stato e le singole regioni che decideranno di avvalersi dell’art. 116.3 Cost.
Questo articolo della Costituzione, infatti, come accennato, legittima le regioni a stipulare intese con lo Stato in grado di derogare al riparto costituzionale di competenze, con tutte le gravi conseguenze in termini di diritti fondamentali e quelle, strettamente connesse, di spesa pubblica necessaria per garantire l’esercizio dei nuovi compiti.
Occorre rilevare che il consenso sull’attuazione di questa disposizione è sempre stato trasversale. Basti ricordare che quando il processo lo stava realizzando il Governo Conte, le regioni che manifestarono la loro intenzione di avvalersi del regionalismo differenziato furono 14, cioè quasi tutte, se si considera che da questa possibilità sono escluse le regioni ad autonomia speciale. Pertanto, per comprendere se l’opposizione di questi giorni (da parte di coloro che non solo inserirono questa possibilità in Costituzione ma che, quando sono stati maggioranza di governo, hanno indicato l’attuazione del regionalismo differenziato come punto programmatico fondamentale), è solo strumentale o se indica un cambiamento di rotta, occorrerà attendere la successiva fase delle intese. Al momento è lecito coltivare il dubbio perché, almeno sino ad oggi, la critica al disegno di legge sul regionalismo differenziato non è stata accompagnata da nessuna riflessione autocritica da parte di chi ha contribuito, in modo determinante, alla situazione attuale, prima inserendo la stessa previsione del regionalismo differenziato in Costituzione e puntando, poi, in molte circostanze e con diversi governi, alla sua attuazione.
Per quanto riguarda la condizione delle regioni meridionali, è dato di comune esperienza che i cittadini del Sud già pagano in modo pesante la dualità economica del paese, perché hanno da tempo molti meno servizi. Nel Mezzogiorno c’è un grave deficit di cittadinanza che va dal trasporto pubblico locale alla sanità, dagli asili nido fino a tutte le prestazioni del welfare. Lo storico dualismo fra Nord e Sud del paese negli ultimi decenni si è, peraltro, accentuato, con il concorso di diversi fattori. In primo luogo, a seguito delle nuove relazioni tra Stato e regioni determinate dal Titolo V; in secondo luogo, a causa di una politica nazionale da decenni intenzionata ad abbandonare il Sud a sé stesso e, infine, perché un trentennio di politiche neoliberali hanno praticamente cancellato la capacità (ma anche la stessa possibilità) dello stato di realizzare politiche redistributive del reddito.
Il disegno di legge Calderoli cerca di dare, sul piano meramente formale, una risposta al meridione, stabilendo che la fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), da garantire su tutto il territorio nazionale, sia una condizione necessaria per l’attuazione dello stesso regionalismo differenziato; in altre parole, una precondizione per realizzare la fase delle intese tra stato e regioni, che amplierà in concreto le competenze regionali, modificando anche i trasferimenti statali e quindi le stesse possibilità di finanziare, o meno, i diritti.
Inoltre, il disegno di legge in discussione prevede la clausola dell’invarianza finanziaria. Ciò significa che nessuna regione dovrà avere minori trasferimenti di quelli attualmente garantiti.
Si tratta, sulla carta, di disposizioni volte a ridurre i divari tra Nord e Sud e a superare le critiche avanzate dall’opinione pubblica. Dare attuazione ai LEP, infatti, dovrebbe comportare una diminuzione del deficit di cittadinanza del Sud.
Ma il punto vero è che le nuove disposizioni, una volta approvate, saranno destinate a restare sulla carta, in quanto non avranno effetti concreti. Non esiste infatti la possibilità pratica di dare attuazione ai livelli essenziali delle prestazioni: se davvero si volessero colmare le diseguaglianze, la spesa pubblica necessaria sarebbe enorme, dato il divario, attualmente esistente, tra le regioni del Sud e quelle del Nord.
Inoltre, l’attuazione dei LEP imporrebbe un radicale cambiamento di rotta rispetto a quanto accaduto negli anni passati, almeno per due ragioni. In primo luogo, perché se lo stato volesse davvero attuare i LEP, dovrebbe ritornare attore di politiche redistributive del reddito, funzione che ha abbandonato a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, che hanno visto trionfare privatizzazioni, liberalizzazioni, governo dei mercati e conseguente ritiro dello stato dai suoi compiti redistributivi volti a realizzare fini sociali. Occorre poi tenere conto che una tale politica imporrebbe un mutamento radicale anche nei rapporti Nord/Sud rispetto a quanto avvenuto negli ultimi decenni in cui il Nord ha drenato la maggior parte della spesa pubblica, determinando un divario che è costantemente aumentato ed oggi assume dimensioni allarmanti[4].
Infine, occorre fare una considerazione critica sullo stesso strumento dei LEP che, se studiato con attenzione, risulta privo di efficacia proprio rispetto all’obiettivo della riduzione delle diseguaglianze (non è un caso che i LEP siano stati previsti nel contesto della modifica titolo V del 2001 che apre alla più ampia differenziazione e, con l’art. 116.3, pone anche i semi della disgregazione nazionale). Se i livelli delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale devono essere «essenziali», questo significa che tali livelli saranno «minimi».
Si tratta, pertanto, di un’eguaglianza rovesciata rispetto a quella auspicata dalla Costituzione del 1948. Un’uguaglianza nel minimo, dunque, come ha sempre sostenuto, sin dal 2001, Gianni Ferrara[5], nell’isolamento generale.
Pertanto, se inquadrati nel loro significato effettivo, è evidente che i LEP sono del tutto coerenti con il perdurare delle diseguaglianze fra le regioni e non rappresentano un efficace argine nemmeno per evitare che tali diseguaglianze aumentino.
L’esempio della sanità è paradigmatico. Nonostante questo servizio (il SSN) sia funzionale all’attuazione di un diritto, qualificato espressamente dalla Costituzione (art. 32) come «fondamentale», la definizione dei livelli essenziali di assistenza (LEA), che pure si è realizzata, non ha prodotto alcun effetto in termini di riduzione delle diseguaglianze tra il Sud e il Nord; anzi, si è osservato l’esatto contrario.
Tanto è potuto accadere perché la determinazione dei livelli essenziali (cioè, si ribadisce, minimi, non uniformi!) è, come osservato, del tutto coerente con un sistema che ha inteso dismettere la logica dell’uguaglianza, come sancita negli articoli 2 e 3 della Costituzione, per approdare a quella della differenziazione, che può essere coerente, al contrario, con una eguaglianza solo per quanto riguarda il minimo. Sia i Lea che i Lep, infatti, si sono resi necessari proprio nel momento in cui si è indebolito il vincolo solidaristico per dare ingresso, nel 2001, alla più ampia diversificazione. La differenziazione introdotta in via generale dal nuovo titolo V è, infatti, non solo già amplissima, ma essa ha ad oggetto proprio il godimento dei diritti (basta leggere l’art. 117, III e IV comma per verificare quante materie attinenti a diritti fondamentali siano state attribuite alle regioni) e, di conseguenza, l’allocazione della spesa necessaria per soddisfarli.
Lo stato centrale, pertanto, in un tale sistema si deve limitare solamente a garantire un minimo per tutti. Le regioni, invece, cioè i soggetti della differenziazione, possono aggiungere (diritti) oltre il minimo. Ovviamente, ça va sans dire, tanto vale solo per quelle regioni che possono permetterselo. Un sistema che si fonda su tali principi, pertanto, tollera le diseguaglianze, preoccupandosi solo di garantire che la diseguaglianza non scenda al di sotto di una determinata soglia (il livello essenziale).
I LEA e i LEP sono, pertanto, strumenti nati nell’ambito di un disegno volto a indebolire i vincoli di solidarietà nazionale, coerenti con un sistema diseguale e differenziato, in cui il finanziamento dei servizi (e dei diritti) è stato legato ai tributi percepiti nel territorio regionale dallo stesso articolo 119 Cost. (il cui secondo comma stabilisce che le regioni «dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio»). In un tale sistema, inoltre, sebbene si garantiscano solo livelli minimi, non è affatto detto che tali livelli essenziali (benché minimi) si riescano a soddisfare in concreto, come mostrato proprio dall’esempio della sanità, in cui le diseguaglianze sono aumentate anche dopo l’introduzione dei LEA e in cui molte regioni non riescono a garantire nemmeno tali livelli minimi (i LEA).
L’esempio del finanziamento della spesa sanitaria è paradigmatico, anche perché ha anticipato l’impalcatura che sta alla base della modifica del Titolo V della Costituzione. Il decreto legislativo n. 56 del 2000, che ha introdotto il cosiddetto federalismo in sanità, ha legato i trasferimenti alle regioni alla compartecipazione all’IVA riscossa nei rispettivi territori. Per compensare gli effetti sperequativi che in tal modo era chiaro si sarebbero prodotti, si è previsto un fondo di perequazione. Tale fondo, tuttavia, non è nato con il compito di riportare i finanziamenti ad eguaglianza (sarebbe stato illogico prima differenziare per poi ritornare al punto di partenza), ma solo con quello di correggere le diseguaglianze ritenute eccessive. Vi è, pertanto, un margine di diseguaglianza tollerata, cioè conforme a legge (sic!). Inoltre, come chiarito da Piero Giarda, il modo in cui sono stati applicati i criteri per la ripartizione del fondo perequativo della sanità ha prodotto il paradossale effetto di finanziare di più le regioni ricche e di meno quelle con minor reddito[6].
Per cui, anche successivamente alla fissazione dei LEP, è più che ragionevole ritenere che le diseguaglianze attuali tra il Nord e il Sud non si ridurranno affatto. Nel migliore dei casi (ma proprio nel migliore), resteranno cristallizzate ai livelli attuali.
Occorre tuttavia avvertire che per formulare un giudizio definitivo su tale aspetto (sui LEP e sull’invarianza finanziaria che sono previsioni contenute nel disegno di legge in discussione), sarà necessario attendere la fase delle intese che le singole regioni stipuleranno con lo Stato, che inizierà solo successivamente all’approvazione definitiva del disegno di legge Calderoli attualmente in discussione. Queste intese, infatti, assieme alla legge del parlamento che le renderà operative, potrebbero persino porre nel nulla le disposizioni del disegno di legge Calderoli (che, essendo una legge ordinaria, non può certo vincolare le leggi successive).
A tale proposito pare utile ricordare le bozze di intesa del 2018, firmate dall’allora sottosegretario Bressa del Governo Gentiloni, che facevano chiaramente percepire la direzione disgregatrice dell’unità che è stata da sempre data all’attuazione di questo articolo della Costituzione. Ad esempio, la bozza di intesa dell’Emilia Romagna, firmata da Bonaccini, in qualità di presidente della Regione, con riferimento alle risorse (art. 4), stabiliva che i «fabbisogni standard» fossero definiti in base ai tributi versati nel territorio regionale. In poche parole, di più ai ricchi (che versano più tributi), di meno ai poveri (che ne versano meno). Tanto è vero che un noto professore dell’Università di Bari, Gianfranco Viesti, ha inventato la fortunata formula della «secessione dei ricchi»[7]. La circostanza che questa appena citata fosse un’ipotesi di attuazione del 116.3 Cost. tutta interna al centrosinistra, che adesso è su posizioni critiche, non può che far riflettere.
Inoltre, c’è un aspetto di fondo che deve essere messo in evidenza. Sebbene l’introduzione stessa dell’art. 116.3 Cost., così come i suoi numerosi tentativi di attuazione, siano stati immaginati con il fine di liberare la ‘locomotiva’ del Nord dal peso rappresentato dalle regioni meridionali, è verosimile che dall’attuazione di questo articolo l’intero paese ne risulterà svantaggiato, perché il superamento del dualismo è un preminente interesse nazionale, come riconosciuto da sempre dalla cultura meridionalista e ammesso recentemente anche dalla stessa Unione Europea. È un’illusione immaginare che, in un contesto competitivo e globale come quello attuale, si possano salvare autonomamente le economie di alcune regioni, con un sistema statale che si sgretola sempre di più. Alla fine, le conseguenze negative le pagheranno tutti gli italiani, compresi i cittadini del Nord[8].
Se quest’operazione avrà un effetto negativo per tutto il territorio nazionale, assisteremo nei prossimi anni alla meridionalizzazione del Nord. Con buona pace di un ventennio di retorica celebrazione delle virtù palingenetiche del Titolo V, in cui un ruolo di primo piano è stato interpretato dai mass media e dal ceto intellettuale di questo paese (salvo rarissime eccezioni[9]), sempre inclini a conformare acriticamente il proprio pensiero alle mode del momento.
La moda adesso va in un’altra direzione. Intellettuali e mass media, in maniera quasi unanime, sono concordi nell’affermare che il governo di centro destra stia attentando all’unità nazionale, dimenticandosi però che lo stato unitario e quello sociale sono già ridotti in cocci a causa delle politiche neoliberali degli anni Novanta (che ne hanno sterilizzato la capacità di direzione dell’economia e della società, per affidarla ai mercati, mettendo fuori gioco anche la sua, un tempo essenziale, funzione redistributiva) e della riforma del titolo V, di cui il regionalismo differenziato, che l’attuale governo sta cercando di attuare, rappresenta solo la disposizione più scellerata, cioè quella in cui l’attitudine disgregatrice dell’unità è percepibile ictu oculi.
Se questa operazione si realizzerà, riattaccare i cocci in cui si è frammentato lo Stato sarà ancora più difficile e nessun componente dell’attuale ceto politico potrà dirsi senza colpa.
L’attuazione del regionalismo differenziato certifica un dato con cui bisognerà fare i conti: che la classe dirigente e politica di questo paese è del tutto inadeguata.
Natalino Irti nel 2004, in Nichilismo giuridico, commentando l’articolo 114 della Costituzione italiana scritto nel 2001 (secondo il quale «la Repubblica è costituita dai comuni, dalle pro- vince, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato») amaramente osservava: la Repubblica «da forma o sinonimo di Stato, si eleva a contenitore; e lo Stato, da soggetto che gli altri abbracciava e raccoglieva in sé, decade a elemento di un insieme. L’antica unità è sgretolata; la nuova si affida soltanto alla sintassi di una proposizione normativa. E come poi invocare o esigere il senso dello Stato quando lo Stato ha perduto ogni senso?»[10].
La realizzazione dell’unico obiettivo serio, ridare senso allo Stato, per parafrasare l’espressione di Irti, dovrà essere assunto da una nuova classe dirigente capace di riprendere le fila del grande progetto politico, culturale e sociale, «profondamente umano», per usare le parole di Aldo Moro, contenuto nei principi della costituzione repubblicana, che aveva disegnato uno stato sociale al servizio dello sviluppo della personalità umana. Progetto che nulla ha a che vedere con il dominio delle categorie del capitalismo, cui abbiamo assistito negli ultimi decenni (e di cui lo stesso art. 116.3 è chiara espressione), che mira, al contrario, allo sfruttamento dell’uomo e alla sua riduzione a «capitale umano», posto al servizio di un’economia speculativa e disumana, che sempre Irti definisce efficacemente «tecno-economia». L’egoismo insito nell’idea stessa del regionalismo differenziato, per come è nato e per come lo si vorrebbe attuare, non è che una delle tante espressioni di questo incontrastato dominio dell’economia, indice della volontà di superare l’impronta fortemente solidaristica che si riscontra nella prima parte della Costituzione.
Se si vuole trovare un risvolto positivo di questa iniziativa del governo di centrodestra è che potrebbe innescare un processo di valutazione critica dei paradigmi che hanno dominato la scena pubblica negli ultimi trenta anni e porre le basi per una necessaria stagione di resistenza umana, di cui si avverte un grande bisogno, che riaffermi ciò che il personalismo dei Costituenti, e di Aldo Moro in particolare, ha cristallizzato in Costituzione, cioè che «il fine è l’uomo», principio compromesso dal dominio incontrastato di una tecno-economia bramosa di affermare la sua potenza contro l’uomo, la cultura e i valori umanistici, dei quali la solidarietà è parte essenziale.
[1] In tema cfr. C. De Fiores, Il neofederalismo. Aspetti teorici e profili giuridici, in Le Regioni, 1995, p. 81 e ss.; nonché Id., Il federalismo centrifugo, in Id., C. Petrosino, Secessione, Roma 1996, p. 102 ss.. C. De Fiores, Profili giuridici della secessione, in A. Loretoni, A. Ver- sori, Unire e dividere – Unire o dividere. Gli Stati fra interazione e secessione, AIDA, Firenze 2003, p. 151 ss. C. Iannello, Regionalismo differenziato: disarticolazione dello Stato e lesione del principio di uguaglianza, in Economia e politica, 2019; Id., Regionalismo differenziato. L’interesse nazionale evapora, parte la «secessione dei ricchi, in Italia Libera, 2024, di cui si ripropongono alcune riflessioni.
[2] Cfr. Corte cost. n. 118 del 2015.
[3] Pare il caso di rilevare che il prof. Massimo Villone si è fatto promotore di un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare che ha l’obiettivo di rendere coerente la ripartizione delle competenze fra lo Stato e le regioni e dare così coerenza alla previsione del regionalismo differenziato, che non rischierebbe più di produrre un effetto di sgretolamento del sistema. Per visionare il ddl cfr. https://sbilanciamoci.info/una-firma-contro-lautonomia-differenziata-delle-regioni/
[4] Sul punto si rinvia ai rapporti dell’Istituto SVIMEZ.
[5] G. Ferrara, Federalismo ed eguaglianza, in Id., L’altra riforma della costituzione, Il Manifesto Libri, 2002, p. 165.
[6] Cfr. sul punto P. Giarda, Piero Giarda, L’ esperienza italiana di federalismo fiscale. Una rivisitazione del decreto legislativo 56/2000, Bologna, Il Mulino, 2005. In tema cfr. S. Marotta, Regionalismo differenziato: cos’è e quali rischi comporta, in «Economiaepolitica Rivista on line di critica della politica economica», n. 17, I sem. 2019.
[7] G. Viesti, La secessione di cui nessuno parla, in www.rivistailmulino.it, 3 settembre 2018; cfr. anche Id., Un referendum contro l’unità nazionale, in www.rivistailmulino.it, 24 luglio 2018; Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, Roma-Bari, 2019
[8] Sul punto si rinvia a M. Capriati, M. Deleidi, G. Viesti, Che impatto macroeconomico può avere il pnrr nel mezzogiorno?, 2022 in https://eticaeconomia.it/che-impatto-macroeconomico-puo-avere-il-pnrr-nel-mezzogiorno/
[9] G. Ferrara, Federalismo ed eguaglianza, cit., p. 165.
[10] N. Irti, Nichilismo giuridico, Laterza, Roma-Bari, 2002, nota 1.