Qualcosa non funziona nella politica economica europea e in quella italiana in particolare. Errare è umano, ma perseverare è diabolico. Difficile capire se il governo italiano ci sia o ci faccia. L’insistenza sulle riforme strutturali e istituzionali cosa ci azzecca con le necessarie riforme di struttura[1] di cui il Paese avrebbe bisogno? Riforme strutturali e riforme di struttura non sono sinonimi. Per immaginare una qualche crescita economica l’Italia deve intervenire sul motore della propria macchina senza fermarla, mentre le riforme strutturali si limitano a fare un tagliando alla macchina. La crisi italiana è tutta in questa metafora. Le riforme strutturali si sono susseguite nel tempo con effetti andati ben oltre le peggiori aspettative[2]. Di riforme di struttura neppure un abbozzo. Quando mai si è discusso di politica industriale, di investimenti pubblici che anticipano la domanda, di ricerca pubblica per la nostra industria?
I mesi estivi sono “stressanti” per il governo. Tutti gli istituti di ricerca possono valutare l’effetto dei provvedimenti adottati e registrare le implicazioni macroeconomiche e finanziarie. Come un orologio, arrivano stime riviste al ribasso rispetto a scenari iniziali e si ripete la solita liturgia da sette anni: con le misure adottate, il prossimo anno il paese vedrà la luce in fondo al tunnel!
Andiamo con ordine. La prima cosa da sottolineare è la dinamica del Pil. Sapevamo che le previsioni del Governo erano oltre ogni ragionevolezza, +0,8% per il 2014 nel Def di aprile 2014[3]. Le previsioni in primavera del FMI, dell’Oecd e della Commissione Europea abbassavano la crescita a +0,5% e +0,6%, poi quelle di inizio estate dell’Istat[4] e di Confindustria[5] la riducevano ulteriormente portandola a +0,3% o +0,2%, a cui son seguite quelle di REF Ricerche[6] che collocano la crescita a zero. Ma le ultime in ordine di tempo e prime per autorevolezza son quelle di Banca d’Italia del 19 luglio 2014 che superano le nostre peggiori intuizioni. Banca d’Italia nell’ultimo Bollettino economico[7] non solo certifica un tasso di inflazione prossimo allo 0% (0,2% attuale, e 0,4% per il 2014), ma prevede un Pil in crescita di +0,2% per il 2014, con rischio elevato al ribasso. Rispetto alle previsioni del gennaio 2014, la crescita è stata ridotta di ben mezzo punto percentuale per il 2014, mentre per il 2015 BdI prevede un miglioramento rispetto le previsioni precedenti in ragione della politica monetaria espansiva della BCE. Ma a fine 2014 la crescita economica potrebbe comunque anche essere ancora negativa, per il terzo anno consecutivo, o nelle migliori delle ipotesi attorno allo zero.
Le componenti della domanda che sostengono in modo robusto la crescita si esauriscono nelle esportazioni, che segnerebbero un +3,4% che, con una minore dinamica delle importazioni (+1,7%), danno luogo ad un miglioramento della bilancia commerciale. Osserva BdI comunque che la crescita dell’export italiano è minore di quello dei mercati di sbocco, a causa di una competitività di prezzo che peggiora per l’apprezzamento dell’euro. Consumi delle famiglie e consumi collettivi sono fondamentalmente piatti. I primi non appaiono risentire del bonus fiscale, frenati anche dagli interventi di copertura previsti oltre che dalla natura ancora non strutturale dello stesso. I secondi invece risentono degli sforzi di controllo nella dinamica della spesa pubblica corrente. Gli investimenti, che secondo il Def 2014 avrebbero dovuto essere il volano interno del modello immaginato dal Governo di crescita “bavarese”[8] fanno segnare segno negativo nella componente fissa al lordo degli ammortamenti, penalizzati dal comparto delle costruzioni, mentre gli investimenti in macchinari recuperano dopo ben tre anni di valori negativi. Anche le variazioni delle scorte fanno segnare un meno, peggiore di quello del 2013, a conferma che di ripresa non vi è traccia. Prosegue così la caduta dell’occupazione che nel 2014 farà registrare una diminuzione dello 0,6%, con effetti di ulteriore aumento dal tasso di disoccupazione che nel 2015 non darà segni di riduzione significativa nonostante una crescita del Pil attesa dell’1,3%, ovviamente che sarà tutta da verificare. Si conferma quindi non tanto un modello di sistema economico in crescita del tipo export led, piuttosto un sistema a zero growth senza stimoli della domanda interna e che sopravvive solo grazie alla vocazione all’esportazione di una quota dell’industria italiana.
Peraltro, una differenza di quasi 1 punto di Pil rispetto alle previsioni del Def di aprile 2014 è pesantissima sugli equilibri di bilancio pubblico e, peggio ancora, sui livelli di occupazione. Abbiamo un grave problema di distribuzione del reddito, ma altrettanto grave e drammatica è la condizione di inoccupabilità di 6mln di persone[9], che tecnicamente consumano solo lo stretto necessario, nei migliori dei casi. O creiamo nuovo lavoro, oppure ci scordiamo qualsiasi crescita di reddito, occupazione, benessere.
Ma i problemi non si esauriscono qui. La manovra economica che verrà sarà in due tappe. La prima per correggere i conti pubblici relativamente alla dinamica del Pil per il 2014: una manovra correttiva non inferiore a 7mld. La seconda interesserà il 2015 per il raggiungimento del quasi pareggio di bilancio strutturale, con provvedimenti pari a 15-17mld, sempre che la crescita del Pil per il 2015 torni in territorio positivo. È certamente vero che il governo beneficerà di 2,5mld sul servizio del debito, con spread e tassi ai livelli attuali, ma i provvedimenti da adottare assomigliano tanto alla scalata del K2. Da un lato le spese indifferibili che non sono inferiori a 4-5mld, dall’altra la necessità di stabilizzare il bonus fiscale di 80 euro, altri 6mld, sempre che la platea di riferimento rimanga la stessa, a scapito delle promesse per pensionati e incapienti.
Non abbiamo la più pallida idea di come il governo intenda procedere. Si continua a rifiutare l’ipotesi di manovra correttiva, mentre ci si affida ad una ipotetica flessibilità per il pareggio di bilancio grazie ai provvedimenti strutturali intrapresi. L’Europa non sembra disposta a sostenere questa linea, contrariamente a quanto ritengono Renzi e Padoan. Al momento i documenti ufficiali europei dicono altro, mentre il neopresidente della Commissione continua a parlare di crescita nella stabilità. I 300mld in tre anni annunciati da Juncker sono, in realtà, legati ai fondi strutturali e alla possibilità di rafforzare la BEI, mentre nessun strumento nuovo viene annunciato perché essi siano risorse davvero aggiuntive per una politica di crescita. Infatti, il Commissario quella cifra l’ha così declinata: “mobiliterà fino a … 300mld”. Per cui non vi è certezza dell’ammontare di risorse direttamente impegnate che comunque dovranno essere il volano della cifra complessiva, e non l’ammontare di risorse da impegnare sul bilancio comunitario. A ben vedere, non sono altro che un annuncio senza fondamento. Peraltro, 100mld annui sono circa lo 0,8% del Pil dell’Unione, ben poca cosa per risollevare l’Europa da sette anni di depressione[10].
Gli equilibri europei sono difficili da spostare nella direzione necessaria. Le decisioni dell’ultimo Consiglio Europeo di fine giugno 2014 lo attestano in tutta la loro negatività. In sostituzione del sempre opaco José Manuel Barroso, abbiamo un nuovo Presidente della Commissione Europea, quel moderato Jean-Claude Juncker voluto dai popolari europei e sostenuto dall’alleanza dei socialisti e democratici e da quella dei liberali, che non segna affatto una discontinuità. Il vertice intergovernativo peraltro ha confermato che non solo nessun cambiamento delle regole di politica economica, ad iniziare da quelle previste dal Patto di Stabilità e Crescita (PSC), dal Six Pact e Two Pact, è nell’agenda della prossima Commissione, ma neppure quella flessibilità variamente declinata nell’applicazione delle regole che è stata il leitmotiv della negoziazione sul Presidente della Commissione. La flessibilità possibile non è altro che quella prevista da quegli accordi, “sfruttando al meglio” quanto già previsto nelle norme esistenti, come recita il documento finale approvato dal Consiglio Europeo (2014, pp.7-8)[11]. Tale “sfruttando al meglio” rinvia alle riforme da realizzare e soprattutto realizzate, ovvero la flessibilità prevista dal PSC non è disgiunta dalla realizzazione delle riforme che la Commissione ci chiede. Il Governo italiano appare quindi ben poco credibile quando afferma che in Europa sono stati ottenuti quei margini di flessibilità richiesti. Il nostro ministro dell’economia ribatte che le riforme hanno un costo, e nel breve periodo danno risultati modesti per cui questo costo deve essere conteggiato per concedere un allungamento dei tempi di conseguimento dell’obbiettivo finale di rientro del debito al 60% del Pil, ed anche di quelli d conseguimento dell’obbiettivo di medio termine di pareggio di bilancio strutturale (Padoan, 2014)[12]. Il Consiglio Europeo di giugno non solo si è concluso con la piena conferma da parte del Consiglio stesso delle country specific recommendations che un mese prima erano state indicate la Commissione (EC, 2014)[13], ma anche con un fermo diniego alla richiesta avanzata dal Governo italiano di rinviare di un anno, dal 2015 al 2016, il rispetto dell’obbiettivo di medio termine del pareggio di bilancio strutturale, che era previsto nel Documento di Economia e Finanza 2014 (MEF, 2014)[14]. Non ci sembra ciò di buon auspicio per l’ottenimento della flessibilità “da sfruttare al meglio” prevista dal PSC.
Servirebbe coraggio, ma non basta. Senza una sana consapevolezza dei problemi di struttura del Paese, si rischia di discutere di art.18 o di altre diavolerie simili, oppure di Jobs Act e riforma della pubblica amministrazione, che nei fatti prevede una contrazione della stessa con un ridimensionamento del sindacato.
Ci aspetta un autunno difficile. Difficile perché il governo è del tutto inconsapevole di quello che attraversa il Paese.
Sarebbe appena il caso di disegnare un politica economica europea coerente con la necessità di affrontare la crisi in modo strutturale. Si tratta di istituire principi, norme e regole dell’economia pubblica europea, cioè definire l’insieme delle politiche di bilancio comunitarie con le quali indirizzare il sistema economico europeo verso obiettivi democraticamente definiti. Sono necessari principi coerenti con una politica economica europea complessiva che attualmente non esiste. L’Europa, infatti, non possiede un bilancio autonomo e finanziato con entrate fiscali legate ad un’ampia base imponibile. L’attuale bilancio europeo, appena l’1% del Pil di tutti i paesi membri[15], da conto dell’arretratezza delle istituzioni comunitarie. È necessario pensare ad un bilancio europeo molto più consistente, ad esempio del 5% del Pil, finanziato con strumenti come l’IVA, imposte ambientali ed imposte sulle transazioni finanziarie, prevedere l’emissione di bond acquistati dalla BCE per sostenere la crescita e, in particolare, gli investimenti previsti da Piano del lavoro europeo (Europa 2020). Si avvierebbe una programmazione europea sganciata dalla logica intergovernativa, che valorizzerebbe il ruolo del Parlamento e il coinvolgimento democratico dei cittadini e delle parti sociali nella costruzione europea.
Spostare il dibattito europeo su questo piano eviterebbe di lasciarlo impantanato nell’improbabile interpretazione di cosa siano la “austerità espansiva” o la “flessibilità rigorosa”[16] e se sia meglio la prima o la seconda, mentre si attua peraltro la terza via, quella della “precarizzazione espansiva”[17].
*Ricercatore Cgil Lombardia. E-mail: roberto.romano@cgil.lombardia.it
**Professore ordinario di Economia Politica presso l’Università di Ferrara, Dipartimento di Economia e Management. E-mail: paolo.pini@unife.it