1. Durante l’ultima campagna elettorale negli Stati Uniti, l’approccio mainstream ha presentato le parole e le azioni di Trump come reazioni errate e puramente impulsive di una persona emotivamente vulnerabile, “permalosa” e mentalmente instabile. I suoi avversari hanno cercato di utilizzare quelle sue espressioni per colpirlo intenzionalmente dando luogo ad una frenesia di tweets che, fra l’altro, tentavano di fornire ulteriori prove dell’inadeguatezza di Trump rispetto al ruolo per il quale si era candidato. Sarà stato un difetto dell’approccio mainstream, un fallimento del meccanismo elettorale democratico, oppure di qualcos’altro, ma ora Trump ricopre quel ruolo. Ed è ormai abbastanza chiaro che le espressioni utilizzate durante la campagna elettorale rappresentavano abbastanza bene quello che il tycoon intendeva fare. Quindi la domanda è ora: in che misura Trump potrà attuare il suo programma?
Supponiamo che né la leadership democratica, né la base hipster della “resistenza alla tirannia” siano veramente desiderose o in grado di commemorare l’anniversario della rivoluzione russa del 1917 con una vera sollevazione sul Potomac. Quindi, per fermare Trump in modo legale, i democratici devono riconquistare la maggioranza solida nel Congresso durante le elezioni di metà mandato del 2018 (per avere la base per un processo di impeachment in seguito). Molti fra coloro che si annoverano fra i liberal del mondo sono sicuri che le ragioni per avviare l’impeachment sono già a portata di mano. Se dividiamo le emozioni dalle convinzioni, è chiaro che durante la sua carriera nel mondo degli affari Trump non ha mai dato prova di avere un comportamento leggero riguardo la copertura legale delle proprie azioni, mentre i ricordi dei processi dell’impeachment di Nixon (e anche di Bill Clinton, sebbene questo ultimo sia stato un po’ dimenticato dai democratici che aspirano ad una resistenza legale a Trump) sono ancora lì per ricordare alcune possibili trappole.
Sicuramente un fattore su cui contare è anche una forte opposizione a Trump da parte dello stesso establishment repubblicano, ma le aspettative alimentate nei circoli progressisti di una grande disgrazia repubblicana non si sono mai materializzate. Al contrario, Trump ha realizzato un miracolo elettorale in cui pochi repubblicani avrebbero potuto sperare. Il tycoon è stato infatti capace di riunire una nuova coalizione elettorale. Questo è quanto sicuramente pesa sulle preoccupazioni dei politici repubblicani standard (se si eccettuano alcuni “cani sciolti”, sebbene imponenti), a meno che non comincino a percepire che la coalizione di Trump non vi sia affatto. E come la tarda serata dell’8 novembre 2016 dovrebbe ricordare a qualsiasi politico perspicace, non solo i “principi”, ma anche i sondaggi – il divino oracolo della politica moderna – non costituiscono una realtà oggettiva a cui affidarsi. Contano i risultati delle elezioni. Quindi, con una maggioranza repubblicana al Congresso e un vasto potere esecutivo nel suo ufficio, ci sono due principali ipotesi su cui basare le previsioni relative alla politica americana: 1) le sue “gaffe”, i potenziali conflitti di interesse e/o le ingiustizie accoppiate con la sua impopolarità nei sondaggi potrebbero rovinare il suo ordine del giorno e la sua stessa presidenza – molto probabilmente in tempi brevi; oppure, 2) egli potrebbe continuare ad applicare le politiche economiche annunciate durante la sua campagna elettorale almeno fino al 2018 (come possibilità, anche fino al 2024). La prima ipotesi è perfettamente in linea con il discorso mainstream che ha costantemente sostenuto che Trump non avrebbe potuto vincere tutte le tappe necessarie per la sua ascesa al potere. Ma noi optiamo per la seconda ipotesi, almeno per curiosità. Cioè, supponiamo che l’amministrazione di Trump sia in possesso di una leva per imporre la sua agenda.
2. Il nazionalismo economico di Trump, considerato il ruolo dell’economia americana e il peso della politica americana, è potenzialmente la parte più consistente della sua agenda per l’ordine economico globale, che è emerso dopo la fine delle due guerre mondiali e si è riformata con l’ascesa del consenso neoliberista e la scomparsa del blocco socialista. Una consapevolezza diffusa, come rivela la classe mondiale degli esperti, è che tutte le misure politiche che vanno contro la razionalità economica sono destinate al fallimento e che il mondo di Trump semplicemente non ha la possibilità di materializzarsi confrontandosi con la realtà del mondo globalizzato.
Secondo questo ragionamento, Trump si appella a sentimenti “anti-establishment” talvolta comprensibili, ma fondamentalmente sbagliati, di alcuni gruppi sociali colpiti dagli effetti culturali ed economici della globalizzazione (“coloro che si sono perduti nella transizione”), ma la tendenza obiettiva è la globalizzazione. In breve, la vittoria di Trump è concepibile, ma non il mondo di Trump: mentre le radici del populismo sono facili da capire, i risultati dell’attuazione di un programma populista sono destinati a essere rovinosi e di breve durata. Il progresso è irreversibile: il mondo è globale.
3. Per l’approccio mainstream (condiviso da molti, sia a destra che a sinistra degli schieramenti politici), gli effetti economici della globalizzazione sono rappresentati dalla teoria moderna del commercio internazionale, che può essere sintetizzata come segue: nel lungo periodo un regime di libero scambio non può che essere vantaggioso per tutti i paesi coinvolti. Nel lungo periodo, i vantaggi comparati garantiscono che il regime di libero scambio sia un gioco con una soluzione win-win: le economie sviluppate hanno accesso a risorse economiche e materie prime ad un costo minore; quelle in via di sviluppo hanno accesso a una quantità di capitali e prodotti (manifatturieri) superiori a quelle che potrebbero produrre in un contesto di autarchia,che sarebbero invece stati caratterizzati da un impiego relativamente maggiore di fattori produttivi. In un regime di libero scambio, la differenza nei livelli di salario provoca l’esternalizzazione della produzione da paesi con “lavoro costoso” a paesi con “lavoro a buon mercato”. Così è garantita la convergenza economica, che rende la globalizzazione efficace ed equa (ancora nel lungo periodo).
Per molti decenni, a partire dalla nascita delle teorie moderne dello sviluppo economico negli anni ’50, molti studiosi hanno sostenuto che la partecipazione delle economie in via di sviluppo nel mercato globale non avrebbe necessariamente portato ad aumentare i suoi redditi (e, in generale, lo sviluppo); alcuni di loro hanno persino osato usare il termine (oggi imbastardito) “sfruttamento” per descrivere le relazioni tra economie sviluppate e in vie di sviluppo. Questi studiosi sostenevano in un modo o nell’altro che, al contrario di quanto affermava il mainstream, la partecipazione nel mercato globale avrebbe riconfigurato la struttura produttiva del paese in via di sviluppo attraverso la creazione dei settori produttivi orientati esclusivamente all’esportazione e i cui partner commerciali sarebbero stati soprattutto i grandi acquirenti internazionali, piuttosto che le arretrate aree confinanti (il che non esclude l’esportazione di materie prime o prodotti ad alta intensità di lavoro, o persino forza-lavoro anche da quelle aree arretrate). L’approccio “eterodosso” allo sviluppo economico ebbe qualche influenza nelle idee e nelle politiche economiche fino a quando non fu sommerso dalla marea del consenso neoliberista degli anni ’80 e ’90 (Love 2005). Oggi, Trump e altri “economisti nazionalisti” occidentali sostengono infatti che furono le economie occidentali quelle “ingannate” con la diffusione del globalismo economico; e la base dei loro successi elettorali si trova proprio in quelle aree delle loro economie che non sono diventate global.
4. La causa del globalismo neoliberista è stata perseguita per diversi decenni sotto la sembianza dell’inevitabilità. A questo proposito, la crisi dei sistemi di welfare, i disavanzi fiscali e i debiti accumulati, ecc. vengono solitamente citati come le cause che hanno reso necessaria l’attuazione dell’agenda neoliberista. Tuttavia erano in realtà degli effetti delle tendenze visibili già negli anni settanta, se non prima.
L’outsourcing della produzione e la creazione di “catene globali del valore” sono state guidate non solo dalla possibilità di spostarsi verso tecniche produttive a basso costo del lavoro. In molti casi un fattore di pari importanza (e in alcuni casi il fattore principale) era ed è la possibilità di “ottimizzare” la tassazione. “To go global”, sia in termini di profitti che di reddito personale, spesso significa “andare in mare aperto”. Di conseguenza, l’onere fiscale ricade su coloro che sono sfortunati remainers. Per assicurare i liberi movimenti dei capitali, molti ostacoli (tra cui la politica monetaria sovrana) sono stati smantellati in un modo o nell’altro. La mancanza di queste barriere, abbinata alle moderne tecnologie della comunicazione, ha portato a creare un unico mercato speculativo “che non dorme”, con capitali che continuano a scorrere in tutto il mondo da New York a Tokyo e dopo a Londra per tornare a New York. Questo mercato, che difficilmente può essere soggetto a qualsiasi controllo e regolamentazione costante (quindi, difficilmente può essere soggetto a fiscalità), produce continuamente enormi profitti per pochi e regolarmente enormi perdite per tanti (che di solito in ultima istanza sono pagate dai contribuenti di questa o di quella nazione in crisi). I debiti sovrani (sostenuti in ultima istanza dal gettito fiscale o da “misure di austerità” da attuare a livello nazionale) sono solo pezzettini di un gioco speculativo, pezzettini tra gli altri assets del mercato internazionale. Come se l’iniquo onere fiscale non fosse abbastanza per compromettere la produzione locale, gli accordi di libero scambio attuati dagli anni ’90 hanno reso veramente inevitabile la vittoria delle grandi imprese globali nei confronti degli stati nazionali e dei produttori locali.
Con i sistemi finanziari nazionali sottomessi alla finanza mondiale, e le economie nazionali che si dividevano tra settori “avanzati” (capaci di competere a livello mondiale) e settori “arretrati” (che rimangono locali), la forma assunta dallo Stato nell’ultimo quarto del 20° secolo era sotto molti aspetti antiquata. La vittima è la società che usava lo Stato come il mezzo per arrivare ad avere un livello di vita dignitoso, fatto di speranze e di sogni da raggiungere all’interno di comunità sostenibili che (almeno idealmente) dovessero offrire incoraggiamento ai vincitori; rifugio e protezione ai malati, ai giovani e ai disgraziati; e benessere per tutti.
Non solo i settori economici e le regioni, ma anche i popoli si sono divisi tra i vincitori sul mercato globale del “capitale umano”, da un lato, e il cast globale dei miserabili, dall’altro, il cui unico difetto è quello di essere bloccati nei loro luoghi e nelle loro occupazioni. Milioni di giovani studenti in tutto il mondo stanno ottenendo la laurea in medicina, ingegneria, tecnologie della informazione (non raramente rimborsati dai sistemi nazionali di istruzione) con l’unica speranza di lasciare le loro terre per sempre. Milioni e milioni partono senza alcuna speranza, per paura e disperazione. Quelli fortunati che avranno successo sono quasi obbligati a provare quel sentimento di non appartenenza alla nuova terra che li ospita. Coloro che invece rimarranno sono quasi obbligati a sentire che le proprie speranze ed i propri sogni sono inutili, che la loro vita nella loro terra natia non gli appartiene.
L’ordine neoliberista globale non ha bisogno di nazioni, comunità e reti di soccorso. Queste possono essere tollerate (anche se in forma privatizzata e “ottimizzata”) nel caso di sistemi di produzione diversificati ben integrati nel mercato globale – come mezzi per mantenere la forza-lavoro locale. Sono un lusso eccessivo nel caso dei mono-esportatori. Come dimostrano gli esempi recenti di alcune nazioni esportatrici di petrolio, l’ordine neoliberista globale può ben usufruirne senza che vi sia alcun apparato statale cui necessariamente riferirsi. Per il mercato globale, un modo più economico è quello di avere un esercito di mercenari che stiano lì per controllare e proteggere i pozzi e le condutture petrolifere, con una varietà di tribù feudali che permettono alleanze a un prezzo più conveniente rispetto ai precedenti accordi con gli eccentrici dittatori ormai caduti.
5. L’ansia accumulata si è manifestata di recente nel cuore dell’economia mondiale. Non è che le sfide, politiche ed economiche, all’ordine globalizzato non siano visibili altrove. È che il ragionamento che si sostiene, e che abbraccia decisamente l’idea della globalizzazione neoliberista, è ancora prodotto in Occidente. E ora, solo ora, troppe persone nella classe transnazionale degli esperti ne condividono l’ansia. Tendono a personificare Trump come il male. Ogni sua immagine nell’ufficio ovale è una sfida sgradevole alla validità di quelle norme e di quei modelli su cui si basa l’autorità (e il benessere) di quella classe. Il punto è comunque che lui, così come altri politici che riuscirono o riusciranno a distruggere il discorso globalista e progressista, hanno potuto cavalcare l’ondata di ansia generale. Ma quell’ansia non è stata generata da lui.
Attualmente, con le elezioni francesi e una nuova spirale di discorsi accusatori a Washigton D.C. lo spirito liberista sta crescendo. Nel remake liberista de Il Trono di Spade, Emmanuel il Bello sconfigge gloriosamente Marine la Pazza, si unisce a Angela-improvvisamente-diventata-la Grande e, sostenuta dai partigiani democratici, le loro forze avanzano per fare a pezzi Donald il Terribile (e per salvare dalla prigionia di Milano Expo due compagni di guerra coraggiosi, Barack il Saggio e Matteo il Petaloso).
Ma anche se tutte le parti di questo scenario fossero poste in essere, le fonti d’ansia che hanno generato l’onda del nazionalismo economico resterebbero in atto. Hanno radici economiche. Il ritorno dei simpatici politici che dicono parole simpatiche (e politicamente corrette) può solo sopprimere i sintomi per un certo tempo, ma non può curare l’ansia.
6. Alcuni giorni fa a Parigi, Macron ha proclamato il trionfo della nuova (gloriosa) rivoluzione francese – e l’avvento del nuovo ordine post-ideologico («né di sinistra né di destra»). Per lungo tempo la Francia ha dettato tendenze ideologiche per il resto del mondo. Questo annuncio, però, significa che non è più così. Le idee della morte delle ideologie (e della fine della storia) sono obsolete. Sono state sperimentate e rielaborate sin dai tempi di Clinton e Blair. In questo caso il nuovo presidente francese può essere scusato per la disattenzione, dato il disprezzo generale dei francesi per la cultura anglosassone e la sua tenera età. Ma la Francia sta per esplorare gioiosamente lo stesso percorso di rottamazione che la vicina Italia ha seguito (con tutto il rispetto per il talentuoso Mr. Renzi) dal 1992-94: l’ordine politico in frantumi, i partiti politici predominanti e i loro leader caduti in disgrazia e gli aspiranti leader che costruiscono i loro nuovi partiti con i resti del passato.
Tutto ciò, insieme ad altri esempi di esperimenti post-ideologici, mostra che non esiste una politica che non sia né di sinistra né di destra. Fondamentalmente si tratta di una politica di destra in vesti neoliberiste (riforme istituzionali, flessibilità, aumento del capitale umano, ecc.) con alcune concessioni culturali alla sinistra progressista.
Sempre negli ultimi decenni solo i membri dell’elite globalizzata (e dei loro dipendenti culturali) si sono trovati al proprio agio con i mercati politici “centristi”. Il risultato è stato la crescita dell’assenteismo elettorale. Ma la crisi economica mondiale ha sconvolto lo status quo. Quello che oggi è abitualmente definito come “populismo”, è in realtà il ritorno della politica “vecchio stile”, in cui le ideologie rappresentano e canalizzano gli interessi particolari nei conflitti economici e sociali.
L’ipotesi più spiacevole dietro il terremoto rappresentato da Trump è che l’ansia in questione non sia stata generata da alcuni fallimenti della globalizzazione neoliberista nel breve periodo, ma piuttosto dal suo grande successo.
7. Le politiche filo protezionistiche del nuovo nazionalismo economico occidentale in crescita sono una minaccia per l’ordine economico globale stabilito? Sì, certamente lo sono. Se venissero implementate, costituirebbero un esempio più chiaro di totale follia? Sì, certamente – ma solo in un mondo che si regge sui modelli della teoria moderna del commercio internazionale e, anche in questo caso, nel lungo periodo.
Tuttavia, come diceva John Maynard Keynes, “nel lungo periodo siamo tutti morti. Gli economisti svolgono un compito facile quanto inutile se in un periodo burrascoso sono in grado di dirci che il mare sarà calmo soltanto molto tempo dopo che la tempesta sarà passata.” (Keynes 1924, 80) Eppure, gli economisti sono riusciti a bloccarsi in una professione perfettamente adatta proprio a fare osservazioni imparziali sul lungo periodo, con molti di loro che beneficiano di incarichi a tempo indeterminato, mentre molti altri sono “spettatori imparziali” in attesa, che aspirano a quegli incarichi. Gli shock economici del mondo esterno sono semplice onde, appena percepibili dal posto privilegiato cui gli economisti (quasi esclusivamente) hanno accesso.
Il problema (per l’economia mainstream) è che i politici non vedono il mondo se non in una prospettiva di breve periodo: possono tentare di cavalcare l’onda che gli economisti preferiscono ignorare e possono anche riuscire nel loro intento di perseguire il potere, in barba all’ansia degli economisti. Tuttavia, questo non renderebbe il mondo un posto migliore, ma richiederebbe che fossimo più ragionevoli, non emotivi, nelle nostre considerazioni sulle possibili tendenze future. Per ora, la tendenza al nazionalismo economico in tutto il mondo sembra essere forte e persistente (anche se possiamo considerarlo irrazionale).
8. E in considerazione di un approccio post-post-ideologico, vale la pena notare che il “populismo” della sinistra è al di sotto del “populismo” della destra nelle democrazie occidentali (cfr Trump e Bernie Sanders, Le Pen e Mélenchon). Podemos in Spagna ha guadagnato notevole successo elettorale, ma non sembra essere sulla buona strada per ulteriori progressi. Sta ai lettori italiani decidere quanto a sinistra si trova il populismo di Beppe Grillo. L’unico successo elettorale della forza che può essere considerata un esempio di sinistra “populista” è quello di Syriza di Tsipras in Grecia, e non è molto ispiratore. Ci sono, sicuramente, molti fattori specifici a livello nazionale per spiegare questa tendenza. Ma la persistenza della tendenza permette di supporre che, date le radici economiche dell’attuale onda “populista”, la sinistra ha forse bisogno di scuotere la vulgata “progressista” adottata nei decenni neoliberisti e di considerare con attenzione alcuni “vecchi fondamentali” (si veda Barba, Pivetti 2016). Il programma economico non può essere ridotto solo alla re-distribuzione. Se la sinistra non è in grado di rivolgersi ai lavoratori moderni (da tempo considerati scomparsi come classe) per proporre un programma di incremento della produttività, dell’occupazione e dei redditi a livello nazionale, e invece continua a perseguire una agenda essenzialmente globalista, sembra che la sinistra non possa che perdere contro il “populismo” della destra.
Il vero test all’ordine del giorno della sinistra non è il presunto defenestramento di Trump, e non è la sconfitta di Le Pen, ma la sconfitta (molto probabile) di Corbyn quest’anno (non solo nei confronti dei Tory di May, ma anche nei confronti del centrismo laburista). Ed è anche per questo vale la pena riflettere sull’esperienza della sinistra italiana degli ultimi 25 anni.
*National Research University Higher School of Economics, Mosca, Russia
**L’ autore è in debito con la dott.ssa Margarita Olivera per l’aiuto prezioso nell’edizione della presente versione in Italiano.
Traduzione di Margarita Olivera, rivista dalla redazione
L’articolo in lingua originale è al seguente link su economiaepolitica.it
Anderson, S. (2017) ‘Economists Say “Economic Nationalism” Is Economic Nonsense,’ In: Forbes, February 25 (https://www.forbes.com/sites/stuartanderson/2017/02/25/economists-say-economic-nationalism-is-economic-nonsense/#5a4e8ef7306f)
Barba, A. and Pivetti, M. (2016) La scomparsa della Sinistra in Europa (Reggio Emilia, Imprimatur)
Keynes, J.M. (1924) A Tract on Monetary Reform (London, Macmillan and Co.)
Love J.L. (2005) ‘The Rise and Decline of Economic Structuralism in Latin America: New Dimensions,’ In: Latin American Research Review, Vol. 40, No. 3, pp. 100-125
Melnik, D. and Lazzarini, A. (2017) ‘Electoral quakes and the establishment: A new world approaching?’ In: Naked Keynesianism, January 23 (http://nakedkeynesianism.blogspot.ru/2017/01/electoral-quakes-and-establishment-new.html?m=1)
Murphy, H. (2017) ‘Macron’s policies on Europe, trade, immigration and defence’ In: Financial Times, May 7 (https://www.ft.com/content/37223e92-3319-11e7-bce4-9023f8c0fd2e)