Durante una prima fase dell’Abenomics, il Giappone adotta politiche fiscali e monetarie espansive con effetti positivi su crescita e inflazione. Successivamente, il governo aumenta la tassa sui consumi, affidando il compito di stimolare la ripresa alla sola politica monetaria, e il Giappone si riscopre presto in recessione. Un monito per l’eurozona ai tempi del Quantitative Easing di Draghi.
Nel secondo trimestre del 2013, il Giappone lancia un programma di politica economica che attira l’attenzione di tutto il mondo occidentale. A dispetto delle teorie economiche dominanti, infatti, il primo ministro Shinzō Abe decide di affrontare la crisi con politiche fiscali e monetarie espansive.
Dopo i primi riscontri positivi nel 2013, nell’anno successivo invece si registra addirittura una caduta del Pil. Le politiche d’ispirazione keynesiana potrebbero dunque sembrare insufficienti a risollevare il Paese dalla crisi con cui convive ormai da 15 anni ma, al contrario, con un’analisi più attenta e distinguendo due fasi nella cosiddetta Abenomics, si giunge a conclusioni opposte: la politica di Abe non è stata abbastanza keynesiana.
Durante la prima fase, infatti, la politica economica comprende un coraggioso stimolo fiscale basato per la maggior parte sull’aumento della spesa pubblica ed il suo finanziamento da parte della Banca centrale giapponese con un generoso quantitative easing (QE). La BoJ acquista titoli di Stato per ben 6-8 miliardi di yen al mese, diventando presto il primo creditore del Paese. Nello stesso periodo, invece, l’eurozona continua a scommettere sull’austerità e la sua Banca centrale a rifiutarsi di praticare un coraggioso QE.
I dati sembrano favorire le politiche espansive nipponiche: secondo la Commissione europea, nel 2013 il Pil dell’Unione monetaria si riduce di quasi lo 0,50% rispetto all’anno precedente, mentre il Giappone conosce una crescita superiore all’1,50%. A confermare quello che suggeriscono questi dati è uno studio firmato da Joshua K. Hausman e Johannes F. Wieland. I due economisti stimano che gli stimoli dell’Abenomics siano riusciti ad incidere sulla crescita del Pil giapponese nel 2013 per una cifra che va da 0,90 a 1,70 punti percentuali e che, dopo anni di deflazione, anche i prezzi abbiano ripreso a salire registrando una variazione annuale di +1,60% dell’indice dei prezzi al consumo nel mese di dicembre. Il combinato disposto di politiche fiscali e monetarie espansive, dunque, si rivela efficace ad affrontare la stagnazione e la deflazione che il Paese vive ormai da quindici anni.
Le cose cambiano nel secondo trimestre del 2014, quando sembra che il Giappone decida di affidare il compito di sostenere la ripresa alla sola politica monetaria.
Il primo aprile, infatti, scatta un forte aumento della pressione fiscale a carico dei consumatori. Siamo nella seconda fase, quando Abe, allo scopo di tenere sotto controllo la crescita del debito pubblico, sceglie di confermare l’incremento della tassa sui consumi deciso due anni prima dal suo predecessore. La portata di questa politica restrittiva è davvero notevole: ben 3 punti percentuali di aumento dell’Iva. La sola politica monetaria espansiva, per quanto aggressiva, non si dimostra sufficiente a gestire la ripresa dell’economia nipponica: nel secondo trimestre del 2014 il Pil si riduce più del previsto e nel terzo trimestre il Paese si riscopre addirittura in recessione.
Grafico 1
Fonte: Ocse
Evidentemente, al contrario di quello che sostiene la teoria economica dominante, consumi ed investimenti dipendono dal reddito disponibile (cioè il reddito al netto delle tasse) e dalle aspettative sugli ordini di vendita, e dunque anche dalla politica fiscale, prima ancora che dal tasso d’interesse reale su cui può agire la politica monetaria. A trascinare l’economia giapponese verso il basso, infatti, sono proprio il crollo dei consumi e quello degli investimenti che cadono quando aumenta l’Iva, rispettivamente, del 5% e del 4,5% su base trimestrale.
Grafico 2
Fonte: Ocse
Grafico 3
Fonte: Ocse
Come ricordava l’Economist, infatti, sono le grandi aziende e gli individui più facoltosi che posseggono azioni o proprietà nelle grandi città a beneficiare degli effetti del QE, mentre le famiglie devono fare i conti con prezzi più elevati a causa del deprezzamento dello yen. Secondo le stime di Bloomberg, ad esempio, l’utile netto aggregato delle maggiori società quotate sarebbe aumentato del 10% nel 2014, mentre le recenti stime sui salari reali non fanno che confermare la caduta del potere d’acquisto dei lavoratori.
L’esperienza del Giappone può fornire qualche indicazione all’Unione monetaria europea. L’eurozona, infatti, sembra sempre più vicina a scenari da “quindicennio perduto” come quello giapponese: deflazione e crescita anemica con tassi d’interesse già vicini allo zero, debito pubblico che continua a crescere e credito che non riparte. Ovviamente, si tratta di due sistemi economici e politici profondamente diversi e qualunque paragone deve essere estremamente prudente, ma non si può negare che i fondamentali siano molto vicini e che, dopo anni di stagnazione e deflazione, il mix di politiche fiscali e monetarie espansive della prima fase dell’Abenomics abbia avuto un effetto benefico sull’economia nipponica.
Dopo tanta esitazione, la Banca centrale europea (Bce) ha di recente lanciato il suo QE, ma è chiaro che, in assenza di coordinamento con la politica fiscale, rischia di favorire solo profitti e rendite a discapito del potere d’acquisto dei lavoratori, come avvenuto nel Paese del Sol Levante durante la seconda fase dell’Abenomics. Se invece l’eurozona rivede le proprie regole in materia di conti pubblici, può davvero sperare di far ripartire inflazione e crescita e, con l’intervento della Bce, può anche evitare che il peso della manovra gravi eccessivamente sul debito pubblico che, comunque, risulta e risultava nettamente inferiore a quello del Giappone sia prima che dopo la manovra.
Grafico 4
Fonte: Ameco
Se guardiamo ad un’altra politica keynesiana come il Recovery Act del 2009 negli Stati Uniti (di cui si è già discusso su Economia e Politica) abbiamo un altro esempio positivo. Gli Usa continuano a registrare record nella creazione di posti di lavoro ed ormai anche la gran parte degli economisti intervistati dalla Chicago Booth ne riconosce il successo. Per quanto riguarda i conti pubblici, la crescita del debito sul Pil è quasi identica a quella dell’eurozona del rigore fiscale: dal 2009 ad oggi gli States registrano un incremento del 21,85% contro il 20,23% dell’eurozona a 12 (dati Ameco). Inoltre, i disavanzi cresciuti per finanziare il Recovery Act si riducono progressivamente negli anni successivi grazie anche alla crescita ritrovata con la politica espansiva, passando da oltre il 12% del Pil del 2009 a meno del 5% nel 2014 .
Da esperienze come quella dell’Abenomics emerge dunque l’importanza della politica fiscale nell’affrontare le crisi economiche ed, ovviamente, un monito anche per l’eurozona. L’Unione monetaria europea ha infatti tutte le ragioni per riscrivere le proprie regole ed affiancare al QE di Draghi politiche fiscali espansive e coordinate in modo da evitare, prima che sia troppo tardi, scenari simili al “quindicennio perduto” giapponese.