Mentre imperversa la sceneggiata tra Recovery Fund e MES, ovvero su condizionalità e sussidi per del denaro che la maggior parte della politica vorrebbe “a gratis”, in un parziale disinteresse generalizzato lo stato di avanzamento dei fondi SIE 2014-2020 della politica di coesione (siamo quintultimi in Europa con il 40% della spesa)[1] e del Fondo Sviluppo e Coesione – che sono sostanzialmente “a gratis” – fanno emergere ancora una volta una crisi nella performance di spesa che è innanzitutto crisi di capacità istituzionale e amministrativa. Ovviamente i target sono raggiunti anche grazie all’inatteso, quanto cinicamente provvidenziale, Covid-19 che ha consentito di dirottare risorse e scontrinare spese praticamente sulla qualunque un po’ per tutti i Programmi deviando l’attuale ciclo di programmazione su un binario morto.
Si conferma, ove mai ve ne fosse ancora bisogno, la assai parziale utilità dell’attività programmatoria – attività che dura non meno di tre/quattro anni coinvolgendo una molteplicità di comprimari più o meno convinti di una partecipazione salvifica – che porta alla definizione a livello nazionale e regionale di un quadro di interventi e misure, eterodiretto dal livello comunitario, che poi puntualmente viene disatteso o alla meglio rinviato al ciclo di programmazione successiva. Insomma, tanto rumore per nulla; nella politica di coesione ciascuno recita a soggetto con un grado di professionalità senza pari nei sistemi istituzionali pubblici europei e nazionali.
Per quanto riguarda il Fondo Sviluppo e Coesione, un 20% del quale si pensa di alimentarlo con il PNRR, è ormai convinzione diffusa che il deprimente stato di avanzamento (8%)[2] non derivi tanto dalla scarsa capacità istituzionale e amministrativa quanto dal fatto che quelle risorse programmate (nazionali) sono sostanzialmente apparenti. Anzi, bene si farebbe se cominciassimo a non considerarle neanche più come disponibili evitando a tutti coloro che ci lavorano – in sede di programmazione ed attuazione – la mortificazione di indicatori di performance da serie D.
Ma torniamo al concetto di risorse “a gratis” perché dalla politica di coesione, e dai suoi peccati capitali, ci sarebbe molto da imparare in questo complesso negoziato tra Recovery Fund e MES con una crisi di Governo vilipendio dell’Opera dei Pupi.
Superbia. Più grandi, in termini di dimensione finanziaria, sono gli investimenti da realizzare, maggiore la probabilità di insuccesso, ovvero la necessità di almeno una quindicina d’anni per vedere un’opera del valore superiore ai 25/30 milioni di euro realizzata; il che non significa implicitamente che l’opera ultimata sia poi anche utile. D’altra parte, il disallineamento del ciclo pianificazione-programmazione-progettazione viene amplificato dall’inconciliabilità tra linee guida comunitarie ed obiettivi Paese che il più delle volte non si incontrano, e ove mai si incontrino si tratta di promiscuità strumentale. Prima e durante l’avvio di ciascun settennio il tempo dedicato alla predisposizione dei documenti programmatori, se non ha alla base una chiara e concreta pianificazione di dettaglio con l’identificazione netta del fabbisogno e degli spazi dove intervenire (ovvero luoghi) ed una progettualità semi-esecutiva, appare sovente come un esercizio operativo fine a sé stesso.
Accidia. Più è lunga la filiera istituzionale che gestisce tali risorse più appare lento il processo attuativo. Che la regia sia nazionale (ministeri), piuttosto che regionale, la musica cambia poco. È l’intero meccanismo di programmazione e spesa che fatica a funzionare. Si è creato un’Idra la cui sconfitta è possibile solo ad un novello “Rup-Ercole” con licenza di uccidere e a cui garantire l’immunità per evitargli di trascorre i successivi quindici anni a peregrinare per tribunali vari. Ovvero senza un “commissariamento” di questo meccanismo, ultimo di rilievo quello del viadotto “Genova San Giorgio”, molti degli appalti di una certa entità finanziaria diventano una via crucis. Bisogna ricreare la condizione per spendere presto, bene e riattivare i circuiti virtuosi della domanda aggregata – investimenti in primis – considerando che soprattutto per la parte delle risorse grants del PNRR queste appaiono al momento addirittura appena sufficienti a dare una scossa, figurarsi se rimangono impantanate nei bizantinismi della euroitalica tecnocrazia. Occorre inoltre ricordarsi che oggi il risparmio delle famiglie è arrivato a cubare circa il 70% del debito pubblico alimentando un circolo vizioso fatto di deboli consumi, scarsi investimenti, sfiducia verso futuro che sono un bazooka di risorse pubbliche puntato diritto al cuore del sistema economico può scardinare.
Invidia. I fatti dimostrano che nonostante gli oltre 3 miliardi di euro spesi in assistenza tecnica nell’attuale ciclo di programmazione 2014-2020 per migliorare la performance di spesa, il sistema di competenze e conoscenze maturate nelle amministrazioni coinvolte, a tutti i livelli, sembra – come per incanto – dissolversi alla fine di ogni ciclo di programmazione. Ovvero le assistenze tecniche se da un lato garantiscono l’efficienza del governo amministrativo dell’intervento, dall’altra vengono vissuti dai beneficiari non come interventi di capacitazione istituzionale ma di vera e propria sostituzione di personale interno. Il risultato è che a guadagnarci sono praticamente solo le poche grandi società di consulenza che si sono accaparrate i principali lotti di assistenza tecnica, favorite anche da un processo di concentrazione voluto per il 2014-2020 che – spingendo ad abbassare le tariffe uomo – ha spesso dequalificato anche il loro operato.
Lussuria. Implosione della governance istituzionale; la ormai palese sovrapposizione di competenze e decomposizione di una visione strategica unitaria fa sì che troppo spesso la governance multilivello, soprattutto in fase ascendente di programmazione comunitaria e nazionale, non rappresenta un reale valore aggiunto, quanto piuttosto un moltiplicatore di complessità che fa apparire la spesa come una sorta di miraggio dalla quale ci si allontana quanto più cresce il numero degli interlocutori coinvolti. Il ruolo di anticipatore di bisogni e culla di potenziali scenari di crescita proprio dei territori ove si pensa di intervenire, diventa terreno di scontro in cui prevale l’interesse particolare su quello generale; la parte politica su quella di governance; il singolo progetto sulla strategia di sviluppo locale.
Avarizia. La macchinosità del ciclo finanziario della coesione che si sofferma più sulla forma che la sostanza è senz’altro tra tutti i peccati quello più vituperato. Da un punto di vista strettamente funzionale il ciclo finanziario delle risorse necessarie al riequilibrio territoriale, Stato membro – Bilancio dell’Unione – Commissione – Stato Membro – Autorità Regionali – Enti territoriali, il tutto sotto forma di rendicontazione, appare di per sé un meccanismo lungo, tortuoso e diseconomico; con una dissonanza tra sistemi contabili comunitari e quelli nazionali e degli enti locali che costringono ad improbabili quanto continui e artificiosi aggiustamenti. Non si può pensare ad una proposta di miglioramento delle prestazioni di attuazione e capacità di assorbimento dei fondi strutturali – e per osmosi del Recovery Fund – se non si riconsidera tale ciclo finanziario “scambiando” maggiore accountability comunitaria, financo sanzionatoria, a fronte – però – di una maggiore agilità nella spesa.
Ira. La programmazione unitaria è stata il mantra di buona parte della politica di coesione degli ultimi cicli dei fondi SIE. E questo è un bene quando si è fermata a livello di integrazione degli interventi e pianificazione delle misure. Peccato che la programmazione unitaria sia stata altresì sovente interpretata come esercizio anche finanziario degno del gioco delle tre carte solo che l’asso non era tra le tre carte e quindi era impossibile vincere. O peggio, se c’era, la combinazione affinché potesse “uscire” ed essere unito alle altre risorse disponibili della programmazione unitaria era solo perché “i due pali” si erano distratti. Regole diverse di rendicontazione, pletore di responsabili di misura/portafoglio, tempi di incasso ed esborso differenziati, rigidità del sistema dei controlli, promiscuità dei sistemi di monitoraggio, necessità di progettualità più o meno esecutive, sono solo alcuni dei principali elementi che hanno rappresentato spesso più un ostacolo che un effetto moltiplicatore (vedasi il caso della Strategia Nazionale per le Aree Interne dove crescente è stata la disillusione dei sindaci).
Gola. La scarsa addizionalità delle risorse comunitarie rispetto a quelle ordinarie, complice un clima di contrazione generalizzata delle risorse ordinarie per gli investimenti e di un quadro instabile della finanza pubblica locale – ha palesato una modalità di pianificare interventi che è apparsa, troppo spesso, come programmazione finanziaria “di cortile”. Una programmazione regionale per i territori che, basandosi su risorse nazionali incerte ha fatto prevalere le emergenze di fabbisogno rispetto a fabbisogni strutturali da colmare. Gli ultimi due cicli di programmazione hanno evidenziato un forte effetto spiazzamento delle risorse ordinarie con quelle straordinarie che sottende una deriva di mission preoccupante per l’intera politica economica e che ha imposto al contempo all’intero comparto pubblico di rivedere il proprio modo di implementare servizi e opere pubbliche. Da parte degli enti territoriali si è assistito ad una progettualità che ha rincorso il finanziamento provandovi ad adattarsi o, quando non possibile, facendo il contrario provocando inevitabili ritardi e distorsioni.
Vale a questo punto porsi alcune domande. Ma perché da mesi ci stiamo preoccupando degli 80 miliardi salvifici a fondo perduto di Next Generation EU e praticamente tralasciamo una cifra assai prossima – quella dei fondi strutturali sempre a fondo perduto – che arriveranno in Italia per il 2021-2027? Che forse le risorse dei fondi strutturali valgono meno di quelle del Next Generation EU o comunque sicuramente meno di una crisi di Governo? Eppure, una cifra simile ormai ha caratterizzato gli ultimi tre cicli della programmazione comunitaria e sono stati senz’altro esiziali per buona parte del Mezzogiorno che con oltre 260 euro pro capite annui[3] ha finanziato gran parte della spesa in conto capitale della PA (in media più del 40%)[4]. Purtroppo, però, il Mezzogiorno d’Italia rimane tra le aree più arretrate del Paese; la Sardegna e il Molise sono diventate regioni meno sviluppate e l’Umbria e le Marche sono passate in transizione. Ma non importa perché riceveranno più finanziamenti e nella politica di coesione si vince quando si perde. Insomma, come un cappotto vecchio, ormai questa materia non è più di moda. Invero, per buona parte della politica italiana non lo è mai stata; troppo complessa e arzigogolata da capire ma soprattutto esaurito l’effetto annuncio delle risorse “conquistate” a Bruxelles, inizia tutto il cerimoniale dell’impegno, spesa e rendicontazione che è roba indigesta come l’insalata di rinforzo al cenone di Capodanno; insomma, con uno scarsissimo appeal comunicativo.
E nel frattempo? Nel frattempo, c’è già da guardare oltre con l’illustrazione fatta in queste settimane al partenariato economico e sociale del percorso e dello stato del dialogo informale con la Commissione europea per i contenuti strategici del nuovo Accordo di Partenariato, a seguito della conclusione dei Tavoli partenariali per obiettivo di policy (durati un paio di anni), che definirà i confini della liturgia del prossimo ciclo di programmazione 2021-2027. Una liturgia collaudata che di certo prevede la confessione e la comunione di tutti gli stakeholder coinvolti, ma raramente la penitenza e tantomeno l’assoluzione.
[1] Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati Cohesion Data aggiornati al 30/06/2020.
[2] Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati OpenCoesione al 31/08/2020.
[3] Media 2015-2017. Fonte: elaborazione IFEL-Dipartimento Studi Economia Territoriale su dati Sistema Conti Pubblici Territoriali e Istat, anni vari.
[4] Ib.