Tutti gli economisti e i politici riconoscono che il più grave e urgente problema che soffoca l’economia italiana è l’eccesso di debito pubblico. Tutti sono concordi: se il debito pubblico continua a crescere con questa dinamica diventerà insostenibile. La crescita reale del PIL italiano è attualmente di 1,5%, l’aumento dell’inflazione è pari a 0,8%, quindi la crescita nominale è del 2,3%, mentre gli interessi che paghiamo ai mercati finanziari sono pari a oltre il 3% del PIL. L’Italia produce ogni anno più debito che reddito. Come risolvere il problema ed evitare una crisi verticale dell’economia italiana?
Questo articolo si propone di esporre e di suggerire alcune possibili soluzioni mirate a diminuire il debito pubblico italiano e, più precisamente, a ridurre il rapporto debito/PIL.
Vale la pena citare innanzitutto alcuni dati che sono noti ma che è opportuno esplicitare in tutta la loro crudezza. Il debito pubblico italiano è pari a circa 2.218 miliardi di euro, cioè al 132,6 % del PIL che vale 1.672 mdi (dati Istat 2016). In valore assoluto il nostro debito segue solo quello degli Stati Uniti d’America, pari a 18.237 miliardi di dollari, Giappone, 10.557 miliardi e Cina, 5000 miliardi circa. Ma è il valore relativo rispetto al PIL che preoccupa: qui siamo dietro solo a Giappone, 200% sul PIL e Grecia, circa 175% . Soprattutto, il nostro debito pubblico cresce a spirale: lo stato italiano aumenta il suo debito per pagare gli interessi sul debito.
A chi dovremmo restituire il debito di stato? Gli investitori stranieri contano per circa il 30%, le banche il 29%, le assicurazioni il 21% e Banca d’Italia circa il 15%. Le famiglie italiane detengono ormai soltanto il 5% del debito pubblico. Non investono più nei titoli pubblici del loro Paese.
La spirale del debito affonda la nostra economia. E può affondare anche la democrazia. Il confronto elettorale tra i partiti rischia di diventare puro ornamento decorativo se l’economia non cresce e se restiamo schiavi del debito e della grande finanza.
La verità è che il pericolo di fallimento dello stato italiano non è affatto cessato. I rischi davanti a noi sono molteplici: a) la fine del Quantitative Easing da parte della Banca Centrale Europea. Con la fine del QE è certo che i tassi di interesse aumenteranno e che quindi l’Italia dovrà pagare di più per servire il debito pubblico; b) l’incertezza politica – ovvero non si sa chi e come governerà l’Italia -; c) la necessità per il prossimo governo di sterilizzare circa 30 miliardi di aumento dell’IVA; d) l’introduzione del Fiscal Compact, cioè l’inasprimento previsto delle politiche europee di austerità e di rientro accelerato dal debito.
La proposta forse più pericolosa per l’Italia, proveniente dagli economisti e dai politici europei più “falchi”, come l’ex ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, è però quella che alle banche nazionali sia imposto un tetto limitato per il possesso dei titoli pubblici del loro paese, e/o che questi non siano più considerati privi di rischio, e che quindi richiedano una copertura di capitale. In tal caso le banche nazionali sarebbero costrette a vendere-svendere molte decine di miliardi di debito pubblico italiano. Se passasse questa proposta – con il falso pretesto di disaccoppiare la possibile crisi degli stati da quella delle banche e viceversa – le banche dovrebbero affrontare grandi difficoltà, ma soprattutto il debito pubblico sarebbe in gran parte denazionalizzato e lo stato italiano sarebbe completamente dipendente dagli umori e dai capricci dei mercati finanziari. L’Italia cadrebbe in completa balia della speculazione internazionale.
Il debito pubblico senza crescita è quindi il grande problema dell’Italia. Questo articolo si propone di illustrare criticamente le proposte a mio parere più efficaci per ridurre il rapporto debito/PIL. Queste soluzioni innovative dovrebbero essere al centro del dibattito pubblico sia in campo economico che politico, mentre purtroppo sono ancora ignorate o ampiamente sottovalutate.
Richard Werner: lo stato deve indebitarsi con le banche e non con i mercati finanziari[1]
Secondo l’autorevole economista tedesco Richard Werner, la soluzione più efficace e immediata per diminuire il debito pubblico è quella che lo stato si faccia prestare i soldi direttamente dalle banche commerciali invece di indebitarsi – come fa attualmente – con i mercati finanziari emettendo titoli negoziabili.[2]
Secondo Werner, i governi per finanziare i deficit pubblici dovrebbero preferibilmente indebitarsi direttamente con le banche private – o possibilmente con una banca pubblica, aggiungo io – accendendo dei prestiti di lunga durata a bassi tassi di interesse. Infatti nella quasi totalità dei casi, i prestiti concessi dalle banche ai grandi e meno rischiosi enti economici hanno tassi di interesse notevolmente più bassi di quelli applicati sul mercato finanziario. Inoltre (e soprattutto) i prestiti bancari non sono soggetti alle incertezze e alla dinamica altalenante e speculativa del mercato dei titoli di Stato, e non sono soggetti alle valutazioni spesso erronee e tendenziose delle Agenzie di Rating: queste hanno spesso emesso giudizi di downgrade che hanno danneggiato gli stati e i settori pubblici e che hanno contribuito non poco alla crisi dei debiti sovrani.
Una soluzione del tipo di quella attualmente proposta da Werner venne adottata in Gran Bretagna durante la Seconda Guerra Mondiale quando, anche su consiglio di John Maynard Keynes, il Tesoro britannico si fece prestare dalle banche dei fondi all’1,125% di interesse.
Anche le banche potrebbero guadagnare dei notevoli vantaggi prestando soldi allo stato. Innanzitutto questi prestiti non sono valutati con il metodo mark to market e quindi rappresentano una voce contabile stabile e non soggetta a variazioni negative nelle fasi di crisi[3]; inoltre, secondo le regole di Basilea i prestiti allo stato sono classificati come sicuri, non richiedono di essere coperti da un incremento di capitale della banca prestatrice, e possono anche essere utilizzati come collaterali presso la BCE. Così le banche avrebbero il miglior rapporto capitale/rischio e potrebbero anche offrire più credito all’economia reale.
Infine questa soluzione ha un merito che mi sembra di fondamentale importanza: essa permette di nazionalizzare il debito e di non esporlo alla speculazione di soggetti stranieri che, ovviamente, mirano al loro profitto e non all’interesse nazionale. E che sono più rapidi a fuggire nelle situazioni di crisi, cioè proprio nei momenti in cui c’è più bisogno di capitali.
In base alla proposta di Werner si potrebbe ipotizzare che in Italia una banca pubblica, per esempio MPS, conceda prestiti di lungo periodo allo stato funzionando anche come calmiere nei confronti del mercato finanziario. Quota parte degli interessi maturati sui crediti concessi allo stato ritornerebbe allo stato azionista sotto forma di dividendi sugli utili con vantaggio per le casse pubbliche.
Stranamente tuttavia la soluzione avanzata da Werner, apparentemente semplice e lineare, è attualmente ignorata dalle istituzioni europee e nazionali.
Fratianni e Savona: separare il sistema dei pagamenti dal credito bancario
Un progetto per alcuni aspetti analogo a quello di Werner ma ancora più radicale – quindi più efficace ma non facile da realizzare in tempi brevi -, è prospettato dall’economista Michele Fratianni[4] in collaborazione con Paolo Savona[5].
I due firmatari propongono una profonda e ambiziosa riforma del sistema monetario e bancario. Si propongono di risolvere non solo la complessa questione della riduzione del rapporto debito/PIL ma anche due altri gravi problemi: quello della difesa del risparmio privato, che, come prescritto dalla Costituzione, deve essere tutelato dallo stato; e quello delle banche che custodiscono il risparmio ma che non possono completamente garantirlo a causa della crisi finanziaria e della crisi del debito sovrano.
“La nostra proposta si cala nel solco di una letteratura economica che va indietro nel tempo e tiene conto dei progressi tecnologici registrati ai giorni nostri. Essa consiste nel dividere le banche che raccolgono moneta (money bank) da quelle che concedono credito (credit bank) al fine di annullare i rischi e oneri di gestione delle insolvenze che gravano sui depositi, e di concentrare l’attività delle banche nella valutazione del merito per concedere credito in modo da ridurre le sofferenze”.
In effetti il progetto di Fratianni e Savona si ricollega esplicitamente e dichiaratamente al cosiddetto Chicago Plan, elaborato in Nord America all’inizio della grande crisi da economisti come Henry Simons (1933) e da Irving Fisher (1935).[6]
Secondo il Chicago Plan, il denaro raccolto con i conti correnti a vista non dovrebbe essere usato per offrire credito e quindi come leva per “creare dal nulla” nuova moneta; andrebbe invece depositato presso la banca centrale e investito in moneta legale e in sicuri titoli di Stato. La riserva bancaria frazionaria andrebbe abolita, mentre i depositi a vista dei correntisti dovrebbero essere garantiti al 100%. Tutti i tipi di prestiti (che per loro natura presentano dei rischi e non possono essere completamente garantiti) dovrebbero essere invece offerti dalle banche commerciali che sarebbero obbligate a provvedere alla loro copertura con capitale proprio, obbligazioni o altri strumenti.
In pratica le banche commerciali dovrebbero diventare quello che molti, sbagliando, credono che siano già: puri intermediari la cui attività dipende dalla capacità di trovare finanziamenti esterni prima di essere capaci di far credito. Questo sistema ridurrebbe il principale fattore critico del settore creditizio attuale, cioè il disallineamento tra la durata dei debiti e dei prestiti: attualmente infatti i conti correnti possono essere estinti “a richiesta” ma finanziano mutui e prestiti alle aziende che sono immobilizzati per tempi lunghi.
Applicando i criteri dettati dal Chicago Plan i depositi dei risparmiatori sarebbero completamente garantiti dalla banca centrale e non si potrebbero più verificare corse allo sportello. I soggetti che invece volessero rischiare per ottenere un maggiore rendimento, investirebbero i loro soldi in maniera consapevole nelle banche commerciali. Le banche ridurrebbero i rischi di insolvenza e i governi non dovrebbero predisporre garanzie sostenute dai contribuenti.
Prendendo spunto da questa proposta – che peraltro non venne accettata (almeno nella sua completezza) dal presidente americano del tempo, F.D. Roosevelt – i due economisti italiani suggeriscono la separazione tra la Money Bank pubblica – che gestisce il risparmio dei depositanti e il sistema dei pagamenti – e le banche commerciali (Credit Bank).
Secondo il progetto di Fratianni e Savona, i risparmiatori, in cerca della massima garanzia e tutela dei loro soldi, sposterebbero su basi volontarie i loro depositi – in particolare quelli utilizzati come mezzo di pagamento formalmente garantiti dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, cioè quelli fino ad un massimo di 100mila euro –[7] presso una nuova istituzione statale, la Banca-Moneta. Quest’ultima custodirebbe i depositi in maniera completamente sicura grazie alla loro copertura integrale e al loro inserimento nella catena telematica blockchain attivabile da parte dei titolari per effettuare pagamenti con un click del telefonino o con il mouse del computer.[8]
In base alle stime, i depositi attualmente garantibili assommano a circa 800 miliardi di euro. Grazie a questa rilevante massa di denaro, la Banca-Moneta assorbirebbe buona parte del debito pubblico, evitando così che questa quota subisca le oscillazioni e le speculazioni tipiche del mercato finanziario.
Fratianni illustra così il meccanismo di funzionamento: “La banca-moneta finanzia con i depositi “garantibili” (lato passivo della banca) acquisti di titoli di stato (lato attivo della banca). La banca-moneta diventa un acquirente “fisso” di debito pubblico. Nel tempo lo stock di debito detenuto dalla banca-moneta cresce in virtù del fatto che la domanda di moneta è sensibile al reddito. Il debito pubblico diventa meno pesante per l’economia perché lo stock di debito detenuto dalla banca-moneta non è sensibile al tasso di interesse, in virtù della caratteristica di cliente “fisso”. In sintesi; contabilmente, il debito non diminuisce ma la proposta ha come beneficio collaterale una importante riduzione della componente “interest-rate sensitive” del debito pubblico”.[9]
La Banca-Moneta guadagnerebbe il suo reddito dagli interessi sui titoli di stato di sua proprietà. Questo reddito, dopo i costi operativi e i rendimenti sul capitale, potrebbe essere trasferito ai depositanti. I rapidi progressi tecnologici nei meccanismi di pagamento – per esempio l’uso estensivo della blockchain – sono destinati a ridurre drasticamente i costi operativi di una banca monetaria rispetto a quelli di una banca tradizionale.
Le Credit Bank invece opererebbero sul mercato dei prestiti grazie a risorse che non possano generare corse agli sportelli, ovvero capitale azionario e obbligazioni di medio-lungo termine, sottoscritte ovviamente da chi intende remunerare il suo risparmio investendo sul business della banca.
Quale sarebbe in conclusione il risultato di questa operazione? Secondo le stime di Fratianni e Savona, qualora l’intera massa di depositi “garantibili” si spostasse sulla banca-moneta – processo questo molto probabile perché i risparmi sarebbero così perfettamente tutelati e i depositi meno costosi – la quota di debito pubblico negoziata sul mercato finanziario, e quindi soggetto alle incertezze e alle speculazioni caratteristiche di questo mercato, si ridurrebbe di circa 800 mdi, convergendo verso circa l’85% del PIL dall’attuale 133%.
Questo progetto sfrutta il fatto che la ricchezza del paese è circa sei volte il PIL e che i mezzi di pagamento ne sono parte integrante; quindi è possibile, secondo i due economisti promotori, garantire (e nazionalizzare) il debito grazie alla notevole somma costituita dai depositi bancari. Ma non solo: secondo i proponenti, i risparmiatori sarebbero i maggiori beneficiari, e anche le banche e l’economia reale godrebbero di alcuni importanti benefici.
Infatti:
- i depositanti sarebbero completamente tutelati perché i loro mezzi di pagamento non verranno più messi a rischio concedendo credito a lunga scadenza;
- grazie alle tecnologie blockchain, il costo del sistema dei pagamenti si ridurrebbe rispetto a quello oggi praticato dalle banche e l’uso sarebbe più semplice, con effetti sociali rilevanti;
- le banche non avrebbero più gli oneri di finanziamento dei fondi di tutela depositi che non sarebbero più necessari;
- le banche tornerebbero a fare il loro mestiere, ovvero concedere credito alle imprese e alle famiglie, comportandosi da imprenditrici invece che da rentier;
- il miglioramento che ne conseguirebbe per le valutazioni del merito di credito innalzerebbe la performance del sistema economico italiano senza incorrere nel rischio derivante da comportamenti di azzardo morale (oggi connessi grazie alla garanzia sui depositi).
Come è facile intuire, il progetto di Fratianni e Savona rivoluzionerebbe in maniera radicale sia il sistema monetario che quello bancario. Le banche non potrebbero più creare moneta dal nulla e di fatto l’emissione monetaria diventerebbe di competenza esclusiva della Banca Centrale. Il progetto appare quindi potenzialmente tanto efficace per garantire – e tendenzialmente anche ridurre (grazie alla diminuzione del peso degli interessi) – il debito pubblico quanto di difficile attuazione: nell’immediato troverebbe fortissime resistenze in molti ambiti, sia in campo politico che presso gli istituti bancari e monetari.
Tuttavia questa proposta diventerà probabilmente sempre più realistica considerando che le criptomonete avanzano rapidamente e che potrebbero diffondersi anche grazie al loro possibile utilizzo da parte dei giganti del web e dell’e-commerce, come Amazon e Apple. Le banche centrali dovranno reagire rapidamente di fronte all’introduzione delle criptovalute.
Del resto le tecnologie blockchain sono già oggetto di sperimentazione da parte delle banche centrali le quali, grazie a queste tecniche digitali, potrebbero in futuro gestire direttamente il sistema dei pagamenti senza bisogno dell’intermediazione del sistema bancario. Si tratta di un processo che nel medio e lungo termine probabilmente rivoluzionerà tutto il sistema monetario e del credito. All’interno di questo processo la proposta radicale dei due economisti potrebbe trovare spazio di concreta attuazione.
Buoni Fiscali per aumentare il PIL e diminuire il debito pubblico
Il progetto relativo all’emissione di Buoni Fiscali convertibili in euro (la cosiddetta Moneta Fiscale) si distingue dai primi due perché è mirato non a riformare il sistema monetario e bancario ma a rivitalizzare direttamente l’economia reale. E ha il merito di essere attuabile autonomamente da parte delle autorità nazionali nel quadro delle regole e delle norme dell’eurozona. [11]
Esistono infatti due maniere di ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL: la prima è di ridurre il debito; la seconda è di far crescere il PIL. La prima maniera è dolorosa e complessa. La seconda maniera – ovvero la crescita del PIL – è certamente più felice perché comporta lo sviluppo dell’economia e la fuoriuscita dall’austerità e dalla crisi.
Fare crescere il PIL in una situazione di deflazione è teoricamente molto semplice: occorre innanzitutto far circolare più liquidità nell’economia reale in modo che aumenti la domanda e che quindi ripartano i consumi e gli investimenti pubblici e privati. La crisi italiana non deriva infatti dall’offerta: le capacità produttive ci sono ancora in Italia, e sono forti e vitali, come dimostra l’avanzo della bilancia commerciale con l’estero di circa 60 miliardi. La crisi ha colpito duro, ma le risorse umane e il capitale produttivo sono tuttora presenti, anche se largamente sottoutilizzate proprio a causa della carenza di domanda.
Il problema attuale dell’economia italiana si pone quindi in questi termini: come e dove trovare la moneta e la liquidità necessaria per incrementare la domanda? Se la BCE con il Quantitative Easing non è riuscita a fare circolare nuova moneta nell’economia reale, tocca al governo immettere nuova liquidità grazie alla quasi-moneta fiscale. L’emissione di buoni fiscali potrebbe finalmente ridare ossigeno all’economia e farci uscire dalla drammatica trappola della liquidità che soffoca l’economia italiana.
Che cosa sono i Buoni Fiscali che propongo? Che cos’è la moneta fiscale? Innanzitutto non è una moneta parallela alternativa alla moneta legale (l’euro) ma è uno strumento finanziario, un titolo di stato negoziabile e quindi subito convertibile in euro. La proposta è che il governo italiano emetta in maniera massiccia, ovvero per qualche decina di miliardi di euro, Titoli di Sconto Fiscale (TSF) che diano diritto ai loro possessori di ridurre i pagamenti dovuti alla pubblica amministrazione a partire da tre anni dall’emissione.
I TSF emessi oggi potranno essere utilizzati fra tre anni, dando titolo al portatore di beneficiare di un taglio delle tasse e di altre obbligazioni nei confronti dello stato (tariffe, multe, ecc.) per un ammontare equivalente al loro valore nominale. I TSF tuttavia, esattamente come tutti gli altri titoli di stato, come i Bot e i CCT, potranno anche essere ceduti immediatamente sul mercato finanziario in cambio di euro. Così incrementano la capacità di spesa dell’economia sin dal momento in cui essi vengono emessi. Il loro valore di mercato sarà analogo a quello di un titolo di stato zero-coupon a tre anni.
Sul piano istituzionale la manovra, essendo basata su titoli fiscali, è perfettamente in linea con i trattati europei poiché in campo fiscale ogni stato è formalmente sovrano.[12] In base alla proposta, il governo attribuirà i TSF senza corrispettivo (gratuitamente) a cittadini e aziende, e utilizzerà i TSF anche per i pagamenti della Pubblica Amministrazione.
Ai cittadini i TSF saranno attribuiti in proporzione inversa al reddito, privilegiando ceti sociali disagiati e lavoratori a basso reddito: questo sia per incentivare i consumi che per ovvie ragioni di equità sociale.
Una quota significativa dei TSF sarà utilizzata a sostegno di iniziative di pubblica utilità: innanzitutto un Piano del Lavoro finalizzato a realizzare infrastrutture immateriali (ricerca, scuola e università, politica attiva del mercato del lavoro, etc.) e materiali (per esempio, opere di riassetto idrogeologico e del territorio). Inoltre i TSF potrebbero essere utilizzati dallo stato per programmi di rafforzamento e riqualificazione del welfare e per il Reddito Minimo.
Alle aziende, le assegnazioni saranno attribuite principalmente in funzione dei costi di lavoro da esse sostenute. L’attribuzione di TSF alle aziende ridurrà i costi di lavoro, ne migliorerà immediatamente la loro competitività ed eviterà che l’effetto espansivo sulla domanda interna crei un peggioramento dei saldi commerciali esteri. Quindi la manovra non genererà scompensi sulla bilancia dei pagamenti.
Lo shock monetario-fiscale renderà nuovamente vitale l’economia nazionale. Le emissioni di TSF potrebbero partire da un livello pari al 3% circa del PIL annuo – circa 40 miliardi di euro – e essere modulate e calibrate nel tempo in modo da assicurare alti livelli di occupazione senza però produrre una inflazione superiore al 3-4%, né scompensi nei saldi commerciali esteri.
L’incremento della domanda legata al maggior potere d’acquisto farà crescere il PIL in misura più che proporzionale rispetto all’emissione di TSF, intorno al 3-4%, fino al recupero completo dell’output gap prodotto dalla crisi. Nel periodo che va dall’emissione dei TSF alla loro maturazione entrerà infatti in funzione il moltiplicatore del reddito.
Come insegna l’esperienza storica – e come hanno verificato Olivier Blanchard e Daniel Leigh in un noto studio effettuato per conto del FMI – il valore del moltiplicatore risulta particolarmente elevato in caso di forte sottoutilizzo delle risorse e di tassi di interesse tendenti allo zero, come è nella situazione attuale. Nelle condizioni di crisi e di trappola della liquidità il moltiplicatore è storicamente anche molto superiore a uno: così ogni euro immesso in circolazione genererà un più che proporzionale aumento del PIL.
Dopo tre anni dall’emissione dei TSF la crescita del PIL indotta dal moltiplicatore darà luogo a nuovo gettito fiscale che compenserà il costo dei TSF senza incremento di deficit e di debito pubblico.
In conclusione: questo progetto è innovativo e radicale ma è l’unico fattibile in tempi brevi per risolvere la crisi sociale ed economica. Un governo ambizioso, intelligente e coraggioso potrebbe, sul piano tecnico, emettere TSF nel giro di poche settimane. Il progetto di Moneta Fiscale non richiede infatti riforme (impossibili) dei trattati dell’Unione Europea e non implica l’uscita dell’Italia dall’eurozona. Emettere moneta fiscale è una decisione che un governo potrebbe prendere autonomamente senza rompere con l’euro e con grande consenso sociale. Il progetto di Moneta Fiscale offre il grande vantaggio di potere essere essere attuato in Italia e negli altri paesi europei mantenendo la moneta unica europea di fronte alle altre valute internazionali, come il dollaro, yen, yuan, pound.
[1] Richard Andreas Werner è un economista tedesco professore di economia monetaria e dello sviluppo presso University of Southampton.
[2] Richard Werner, Journal of International Money and Finance, Volume 49, Part B, December 2014, “Enhanced Debt Management: Solving the eurozone crisis by linking debt management with fiscal and monetary policy”
[3] Cioè al loro valore corrente sul mercato finanziario: questo metodo di valutazione è deleterio perché annulla il valore dei titoli nei momenti di crisi.
[4] Michele Fratianni, ,Money Finance Research Group, Working paper no. 138, “It is time to separate money banks from credit banks in Italy”, M. Fratianni professore di Economia Politica presso il Department of Economics and Social Sciences of the Università Politecnica delle Marche. E professore emerito presso la Kelley School of Business, Indiana University,
[5] Michele Fratianni e Paolo Savona, Milano Finanza 11.febbraio 2017 e Scenari Economici.it “Una proposta per tagliare il debito pubblico e riformare le banche”. Paolo Savona è professore emerito di Politica economica e vice-Presidente Esecutivo dell´Aspen Institute Italia, È stato ministro dell´Industria, Commercio e Artigianato nel Governo Ciampi, presidente del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi e direttore di Confindustria.
[6] Vedi per esempio la voce “Chicago Plan” su Wikipedia. Questa progetto è stato poi ripreso con lo studio “The Chicago Plan Revisited”, un report dell’International Monetary Fund (IMF) report scritto nel 2012 da Jaromir Benes and Michael Kumhof.
[7] In effetti il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi – al quale devono aderire tutte le banche italiane aventi come forma societaria la società per azioni – .non può garantire completamente tutti i depositi dal momento che le banche consorziate sono tenute a versare solo una quota minima di copertura. L’impegno oscilla tra lo 0,4% e lo 0,8% dei fondi rimborsabili di tutte le consorziate. Al 31 dicembre 2016, i mezzi finanziari disponibili, e cioè la dotazione del FITD per rimborsare i correntisti, era di 543milioni di euro (lo 0,09% delle masse rimborsabili). Il FITD è quindi per sua natura impotente di fronte a una crisi sistemica.
[8] Una blockchain è come un registro digitale aperto e distribuito che può registrare le transazioni tra due parti in modo efficiente, verificabile e permanente. Il database sfrutta una rete peer-to-peer che si collega ad un protocollo per la convalida dei nuovi blocks. Una volta registrati, i dati in un blocco non possono essere retroattivamente alterati senza che vengano modificati tutti i blocchi successivi ad esso, il che necessiterebbe il consenso della maggioranza della rete. L’applicazione del blockchain al bitcoin ha reso quest’ultima la prima valuta digitale funzionante senza l’utilizzo di un server centrale o di un’autorità centralizzata.
[9] Comunicazione scritta da parte di M. Fratianni all’autore di questo articolo
[10] Comunicazione scritta da parte di P. Savona all’autore di questo articolo
[11] Vedi l’eBook edito da MicroMega: “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall’austerità senza spaccare l’euro” a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini, con la prefazione di Luciano Gallino.
[12] I TSF non generano debito né al momento dell’emissione né in quello dell’utilizzo, ovvero dopo tre anni dall’emissione. Infatti nel momento della creazione di TSF lo stato non sborsa soldi, e quindi non registra alcun deficit fiscale; inoltre i TSF non possono essere contabilizzati come deficit pubblico perché il governo emittente non s’impegna a rimborsarli in euro ma soltanto a concedere futuri sconti sulle tasse. E lo sconto non è mai debito. Inoltre dopo tre anni dall’emissione dei TSF, il PIL e i ricavi fiscali, per effetto del moltiplicatore keynesiano, permetteranno di ripagare il buco fiscale che altrimenti, a parità di condizioni, si sarebbe creato.