1 – Introduzione
Guido Ortona et al. hanno recentemente proposto di procedere a un programma straordinario di assunzione di 1 milione di individui nella pubblica amministrazione italiana, con retribuzioni pagate da una tassa di scopo temporanea sulle maggiori ricchezze finanziarie delle famiglie italiane. La proposta si fonda essenzialmente sulla convinzione che l’espansione del settore pubblico abbia rilevanti effetti moltiplicativi sulla domanda interna (www.propostaneokeynesiana.it).
A partire da questa formulazione, questo saggio si sofferma sul funzionamento della pubblica amministrazione nel Mezzogiorno, mettendo in evidenza come il problema abbia natura quali-quantitativa e come, anche per questa ragione, il programma suggerito da Ortona et al. sia da raccomandare, tuttavia da ampliare tenendo conto di dispositivi che aumentino il rendimento dei lavoratori. In altri termini, ci si concentra anche sugli effetti dal lato dell’offerta del programma di assunzioni nel pubblico impiego, rilevando gli effetti di complementarietà fra la crescita della spesa pubblica e la dinamica degli investimenti nel settore privato.
L’esposizione è organizzata come segue. Nel paragrafo 2 si dà conto dei meccanismi di causazione circolare cumulativa che sono alla base della crescita dei divari regionali; nel paragrafo 3 si analizza la pubblica amministrazione nel Mezzogiorno. ***
2 – Il mercato causa divergenze regionali: un’analisi istituzionalista dei rapporti Nord-Sud
La divergenza fra Nord e Sud ha inizio fin dall’Unificazione. Gli storici riportano il dato per il quale, al 1861, il Pil meridionale non era sensibilmente inferiore a quello del resto del Paese. La fondamentale motivazione delle origini della divergenza è da rintracciare in una variabile geografica, legata alla logistica e ai trasporti. Gli anni successivi all’Unificazione d’Italia sono, infatti, gli anni nei quali si amplia la domanda interna in Europa, soprattutto come conseguenza della prima rivoluzione industriale in Germania. Le produzioni del Nord, considerati gli elevati costi di trasporto in quella fase, trovano, per conseguenza, consumatori più ricchi, più vicini, più numerosi.
Si attiva, così, un meccanismo che, seguendo Gunnar Myrdal (1957), si definisce causazione circolare cumulativa (CCC). Una volta, cioè, determinatasi l’agglomerazione di imprese in una determina area – in questo caso, al Nord – per l’operare di economie di scala, quell’area diventa un attrattore di investimenti provenienti da altre aree[1]. Cresce dunque il Pil nell’area già ricca e si riduce, sia in termini assoluti, sia in termini relativi, la ricchezza prodotta nell’area inizialmente già povera. Un’economia di mercato deregolamentata produce, per questa via, crescenti diseguaglianze territoriali e lo fa spontaneamente. Il meccanismo si autoalimenta e non si arresta endogenamente: l’aumento dei redditi nell’area ricca spinge i lavoratori, particolarmente quelli più qualificati, a emigrare dall’area più povera, generando, anche per questo meccanismo, guadagni di produttività nella prima e, simmetricamente, perdite di produttività nella seconda (cfr. Colacchio-Forges Davanzati, 2022).
L’evidenza empirica disponibile mostra che le divergenze regionali in Italia sono costantemente in aumento, proprio in relazione al periodo nel quale è stato minore l’intervento pubblico correttivo (a partire, in particolare, dallo smantellamento della Cassa per il Mezzogiorno e dalla privatizzazione dell’IRI) e più evidente la scommessa nelle virtù salvifiche del mercato[2], come le migrazioni intellettuali siano un fattore di massima rilevanza nell’alimentare queste divergenze e come questo si traduca in significative perdite di produzione industriale al Sud.
Continua, infatti, la crescita dell’incidenza del settore turistico nel Mezzogiorno, che diventa sempre più il vero e proprio “giardino d’Europa”, ma con una qualità dell’offerta che resta piuttosto scadente e polarizzata fra turismo di lusso e turismo popolare con lavoro nero nelle strutture di accoglienza. Una forte specializzazione in quel settore, peraltro in un contesto di forte de-industrializzazione e anche di perdita crescente di rilevanza del settore agricolo (tradizionalmente trainante in alcune aree, si pensi alla Puglia), determina la caduta della domanda di lavoro qualificato e accentua, per questa via, i flussi migratori, in particolare, di giovani con elevato livello di istruzione. Questo effetto è risultante dalla riduzione dell’intensità tecnologica delle produzioni meridionali, partendo peraltro da valori eccezionalmente bassi del rapporto spesa in ricerca e sviluppo/totale investimenti (Maranzano et. al, 2022).
Il XXI Rapporto Caritas, con dati riferiti al 2021, pubblicato nell’ottobre 2022 riporta che la povertà è maggiormente diffusa nel Mezzogiorno e riguarda prevalentemente minori e immigrati. Il fenomeno ha cause molteplici, fra le quali, non da ultima, l’esplosione quantitativa del lavoro povero, ovvero dell’insieme di attività, anche svolte con contratti regolari, che dà un salario inferiore a quello socialmente considerato dignitoso e di sussistenza. Il lavoro povero è ovviamente in primo luogo quello a nero, e l’economia italiana – quella meridionale ancora di più – si sta sempre più avvitando in una spirale pericolosa nella quale un’incidenza sempre maggiore di rapporti di lavoro ha natura irregolare. Lo dice l’ultimo rapporto della Banca d’Italia, che si sofferma sul nostro Sud (Banca d’Italia, 2022).
Una causa importante dell’aumento del lavoro irregolare, all’estremo nelle campagne pugliesi con 20 euro al giorno per una giornata lavorativa di 10-12 ore, è l’accentuata deindustrializzazione del nostro Paese e la sua collocazione come fornitore di prodotti intermedi all’industria tedesca, in particolare. Si stima, a riguardo, che l’incidenza della manifattura sul Pil è, in Italia, appena in linea con la media europea (14,85 a fronte del 14,46 nel 2020) ed è decrescente nel tempo, soprattutto nelle regioni del Sud. Nell’eurozona, si mostra che la matrice intersettoriale dell’industria registra forti eterogeneità e interdipendenze, con l’Italia, quella del Nord, che vende beni intermedi soprattutto alla Germania, con un peso modesto e in riduzione della spesa per ricerca e sviluppo. L’intensità tecnologica, misurata dalla spesa in ricerca divisa per il volume degli investimenti, è in Italia sempre in riduzione ed è comunque molto bassa nel confronto internazionale. Il Mezzogiorno è sempre più relegato ai margini dell’industria europea e accentua la sua specializzazione nel turismo e in settori a bassa intensità tecnologica.
Lo sfruttamento nelle campagne pugliesi si inscrive in questa dinamica. Riguarda, infatti, molto spesso la coltivazione di prodotti alimentari – si pensi ai pomodori – venduti alle multinazionali del cibo. Si tratta di grandi imprese che ottengono ingenti profitti su larga scala dalla vendita a milioni di consumatori di prodotti di scarsa, scarsissima qualità. McDonalds’ ne è un esempio. Per contenere il prezzo di vendita a livelli eccezionalmente bassi, occorre acquistare input a costi irrisori e, per farlo, occorre rivolgersi a produttori che siano in grado di spingere i salari al livello più basso possibile, quello appena compatibile con la sopravvivenza fisica del lavoratore.
Le multinazionali del cibo, proprio per la strategia di prezzo che utilizzano, ottengono utili crescenti al crescere delle diseguaglianze e della povertà: ovvero, hanno la loro ragion d’essere e traggono alimento dai peggiori risultati macroeconomici che il sistema consegue.
Il lavoro povero è tale soprattutto nei contesti nei quali non è richiesta specializzazione del lavoro (e, dunque, vi è ampia sostituibilità dei lavoratori occupati) e nei quali è poco presente, o del tutto assente, il sindacato. Nel Mezzogiorno entrambe queste condizioni si stanno accentuando: cresce la quota di imprese che occupa lavoratori poco qualificati – quelli più facilmente ricattabili – e si riduce il potere contrattuale dei sindacati e la loro funzione anticoncorrenziale[3]. La “Relazione del Comitato scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza” dell’ottobre 2021 mette in evidenza la crescita, soprattutto nel Mezzogiorno, dei settori “caratterizzati da modesti livelli salariali”, fra i quali, innanzitutto, ristorazione, società di noleggio e servizi e commercio, con retribuzioni a tal punto basse da essere pari ad appena il 12% delle retribuzioni medie del settore privato in Italia: 35.050 euro, su fonte Istat, nel Rapporto del 2018 (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2021, p.53).
Nella prospettiva immediata, le divergenze regionali non potranno che accentuarsi per effetto dell’attuazione dei provvedimenti legati all’autonomia differenziata (v. infra). Si stima, a riguardo, una perdita totale, per le regioni del Sud, di circa 190 miliardi su 750 annui di gettito complessivo (Talamo, 2022).
Il problema è accentuato dal fatto che, stando a ragionevoli previsioni (per esempio, quella dell’ultimo Rapporto SVIMEZ – 2022), il picco di inflazione – in aumento, come è noto, dal 2020, con rilevante accelerazione a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina – dovrebbe interessare, nei prossimi mesi, il Mezzogiorno in modo più marcato del Centro-Nord. Ciò accade dopo un anno, il 2021, caratterizzato da un rimbalzo tale da produrre statisticamente un significativo effetto di crescita, anche sostenuta nelle regioni del Sud: 5.9% a fronte del 6.6% del Nord. In considerazione poi della maggiore incidenza dei bassi redditi al Sud, l’inflazione ha già maggiore effetto per le famiglie residenti nelle regioni meridionali. Per quanto riguarda le imprese, il rapporto SACE 2022 mette in evidenza il fatto che (i) gran parte delle imprese esportatrici è localizzata al Nord e (ii) le imprese esportatrici riescono meglio delle altre a diversificare i rischi nella fornitura di energia. Segue, a conferma di ciò che trova SVIMEZ, che sono soprattutto le imprese meridionali a trarre i maggiori danni dall’aumento dei prezzi dei prodotti energetici e che, dunque, è l’economia del Mezzogiorno a essere massimamente vulnerabile.
3 – Le assunzioni nella pubblica amministrazione al Sud e gli effetti “dal lato dell’offerta”
Una pubblica amministrazione sufficientemente dotata per organico e ben funzionante per organizzazione ed efficienza è ovviamente il presupposto per mantenere sufficientemente elevata la domanda interna e anche per garantire efficienza al settore privato. Ciò a maggior ragione se si considera oggi la rilevanza della tempistica di realizzazione dei progetti del PNRR. Ma la questione non è solo contingente, rinviando all’esistenza di meccanismi di complementarietà fra spesa pubblica e investimenti privati, esplorati, in particolare, nella letteratura postkeynesiana e per i quali si rinvia soprattutto alla produzione scientifica di Alan Parguez e alla tesi della spesa pubblica come “ancora dei profitti”.
Nel Mezzogiorno, entrambe le condizioni non si verificano. SVIMEZ (2022) calcola che l’indice di ricambio delle risorse umane – il numero di assunzioni per ogni pensionamento – nella Pubblica Amministrazione è pari a 1,02 al Centro-Nord nel periodo 2008-2018 e per il Sud a 0,52, con una riduzione di oltre 350.000 unità prevalentemente a tempo indeterminato, ovvero di “personale stabile”. Nello stesso Rapporto, si legge – in modo condivisibile – che “il superamento delle carenze strutturali della Pubblica Amministrazione italiana e locale” passa anche, sebbene non solo, essendo necessari interventi centrali per il buon funzionamento del PNRR, per “nuove immissioni di personale formato e competente” (SVIMEZ, 2022, p.8).
Il problema del pubblico impiego al Sud ha natura quali-quantitativa: è bassa la numerosità e l’incidenza dei dipendenti pubblici ed è, altresì, bassa la qualità dell’occupazione. L’inefficienza del settore pubblico, misurata con diversi indicatori (v. infra), è molto elevata.
La Fig.1 mostra i tempi di erogazione dei crediti verso le imprese da parte degli Enti locali italiani, assunto come indicatore della performance dell’amministrazione pubblica e suddivisi per Regioni.
Si nota il fatto evidente che tutte le regioni meridionali hanno tempi di pagamento ben superiori a quelle del Nord[4]. Le figure a seguire chiariscono che questo non dipende principalmente dal numero di addetti nella P.A., dal momento che, se così fosse, non si spiegherebbe per quale ragione negli anni i tempi di pagamento in Italia si riducono (Fig.3). È evidente che a determinare questo esito è stata la forte accelerazione dei processi di digitalizzazione della P.A. impressa dalla direttiva UE 7/2011, entrata in vigore nel 2012 (obbligo di pagamento entro 30 giorni). Il problema, però, è anche di ordine quantitativo, dal momento che, come mostrato in Fig.2, nel Sud tutte le Regioni sono sottodimensionate per numero di addetti pubblici.
A consigliare un aumento del numero di dipendenti pubblici è la considerazione che la gran parte delle aree meridionali ha il lavoro nero – e la criminalità organizzata in alcune Regioni – come principale sbocco occupazionale. Dunque, l’assunzione, in particolare, di dipendenti pubblici per le mansioni di ispezione è fondamentale per ridurre l’entità del problema. L’ultimo Rapporto dell’Ispettorato nazionale sul lavoro offre le seguenti evidenze: su 62.710ispezioni definite da INL oltre il 62% è risultato irregolare. Su 84.679 ispezioni definite complessivamente da Inl-Inps-Inail, il 69% è risultato complessivamente irregolare, con un incremento in materia previdenziale (+17%) e assicurativa (+42%). Gli indici di irregolarità più elevati si riscontrano nell’edilizia e nel terziario laddove, in particolare, si rileva un tasso di irregolarità notevole nelle attività dei servizi di alloggio e ristorazione, trasporto e magazzinaggio, ma soprattutto nei servizi a supporto delle imprese, dove gli indici di irregolarità sono riconducibili, in primo luogo, ad esternalizzazioni e interposizioni illecite.
Il totale dei lavoratori tutelati da INL (151.742) comprende, oltre ai 59.362 lavoratori tutelati a seguito di illeciti contestati, anche quelli tutelati con l’adozione di provvedimenti come la diffida accertativa (12.720), la disposizione (74. 705) o l’esito positivo di conciliazioni monocratiche (4.955). La presenza di lavoratori occupati “in nero” costituisce circa il 26% (15.150) dei 59.362 lavoratori irregolari tutelati da INL ed è stata rilevata nel 39% delle 39.052 ispezioni con esito irregolare. Per quanto attiene al quadro geografico dei controlli avviati sul territorio nazionale, che sono stati distribuiti interessando in particolare il sud (con il 30%) – ad esclusione della Sicilia che, per lo Statuto regionale, si avvale di un proprio autonomo Ispettorato – il centro (con il 29%) e a seguire il nord ovest e nordest (con il 21% e 20%), con l’eccezione, in quest’ultima area geografica, delle province autonome di Trento e Bolzano, che si avvalgono di propri Ispettorati in ragione della loro autonomia speciale. Nel rapporto tra il numero lavoratori in nero e quello delle ispezioni con esito irregolare, le percentuali più elevate a livello regionale sono state rilevate in Campania (60 lavoratori in nero per 100 ispezioni con esito irregolare), seguita da Toscana (52%) e Calabria (48%). Si conferma la tendenza a una diminuzione generale del lavoro nero per le donne, determinando una riduzione della quota femminile che dal 40% del 2019 passa al 30% del 2021, e si assiste conseguentemente ad una crescita della quota maschile di lavoro nero, che va dal 60% del 2019 al 70% nel 2021.
Per quanto attiene alla numerosità degli ispettori sul lavoro, l’evidenza è nella fig.5, dalla quale risulta evidente che il personale è in riduzione per l’INL negli ultimi anni per qualunque mansione e figura professionale.
L’ipotesi interpretativa che viene qui suggerita fa riferimento all’evidenza per la quale dal Mezzogiorno emigrano soprattutto giovani altamente qualificati o giovani destinati a diventare tali data la famiglia di provenienza (Scarlato e D’Antonio, 2007). A ciò va aggiunta la scarsa attrattività della pubblica amministrazione per i dottori di ricerca: si tratta di un problema tipicamente italiano, che fa riferimento a questi dati. Su fonte Ragioneria generale dello Stato – conto annuale del Tesoro – ultima rilevazione, si calcola che il numero di diplomati in attivo per il settore pubblico italiano è di 610.909 uomini e 754.244 donne (totale per tutte le funzioni), a fronte di un numero di lavoratori in possesso di laurea triennale pari a 80.783 uomini e 119.874 donne. I lavoratori in possesso di laurea magistrale o a ciclo unico sono 318.874 (uomini) e 722.470 (donne). I post-laurea sono 15.369 uomini e 10.073 donne, mentre i dottori di ricerca sono 56.426 (uomini) e 57.292 (donne): nelle funzioni centrali sono solo 1.019 uomini e 1479 (donne), nelle funzioni locali sono rispettivamente 1.816 e 3.069 e, nella sola sanità, sono 38.529 42.814. Con la parziale eccezione di Puglia e Basilicata, la numerosità di laureati e dottori di ricerca nella P.A. meridionale è significativamente più bassa. A titolo esemplificativo, il numero di individui in possesso di titolo post-laurea nella P.A. della Campania è 53 uomini e 17 donne, a fronte di 227 uomini e 306 donne; i titolari di dottorato di ricerca sono, per la Campania, 120 uomini e 80 donne, a fronte per la Lombardia di 130 uomini e 249 donne. Per quanto attiene alla percentuale rispetto al numero complessivo di addetti nelle due regioni, si registra una più elevata incidenza dei dottori di ricerca donne in Lombardia e una maggiore incidenza dei percettori di titoli post-laurea in Lombardia rispetto alla Campania.
Per quante attiene alle prescrizioni di policy, ci si orienta per un aumento del numero di dipendenti strettamente, però connesso, all’aumento dei salari nel pubblico impiego (per attrarre forza-lavoro altamente qualificata, contrastando il fenomeno delle dimissioni e il problema del discredito culturale del lavoro pubblico). Sulla base della recente analisi di CUB (2023), si propone, altresì, di verificare la possibilità di metodi di riconversione organizzativa del lavoro nel pubblico impiego che contrasti la ripetitività delle mansioni (l’”ottusità smithiana”) e il correlato della scarsa motivazione e del basso rendimento[5].
*** Si desidera ringraziare Augusto Forges Davanzati (Assospena) e Antonio Tornese per le utili informazioni offerte sul sottodimensionamento del personale in alcuni servizi pubblici al Sud (Zes e porti, in particolare), dal punto di vista degli imprenditori del Sud.
Bibliografia
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dalle Pubbliche amministrazioni centrali e locali alle imprese e ai cittadini.
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Francesco Bortolamai (2022). I pagamenti della PA: miglioramenti notevoli, ma ancora forti ritardi in alcune amministrazioni. Osservatorio CPI – Università cattolica del Sacro Cuore.
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Maranzano, P., Variato, A.M., Roberto, R. (2022). Politica economica ed evoluzione di struttura: una comparazione europea attraverso gli arcipelaghi settoriali, “Economia&Lavoro”, LVI, 2, pp.171-189.
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Piergiorgio Carapella (2018). I ritardi dei pagamenti della Pubblica Amministrazione. Osservatorio CPI – Università cattolica del Sacro Cuore.
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Scarlato, M. e D’Antonio, M. (2007). I laureati del Mezzogiorno: una risorsa sottoutilizzata o dispersa, Quaderno SVIMEZ n.10, ottobre.
SVIMEZ (2022). Anticipazioni del Rapporto SVIMEZ. Roma.
Talamo, S. (2022). L’autonomia al Sud. I pericoli per sanità e scuola, “Corriere del Mezzogiorno”, venerdì 21 ottobre, p.1.
[1] Le economie di scala sussistono quando i costi medi decrescono al crescere della quantità prodotta, caratteristica tecnica tipica di imprese con costi fissi molto elevati.
[2] Per una ricostruzione dettagliata e rigorosa della Storia economica italiana e delle sue fasi di sviluppo, nell’ambito della NEG (la new economic geography inaugurata da Paul Krugman), si veda, in particolare, Daniele e Malanima (2011) e la bibliografia lì citata.
[3] Per la destra la povertà è una colpa individuale. Il Governo ha annunciato una revisione del reddito di cittadinanza, la principale misura esistente di contrasto alla povertà, che verrà tolto agli individui che si presume siano abili al lavoro e in età da lavoro, e in più non ha in programma interventi di lotta al lavoro povero. L’unica misura prevista a riguardo è l’ulteriore detassazione delle imprese (che già ricevono ben 40 miliardi di euro all’anno), nella forma del “più assumi, meno paghi”. Si tratta di un intervento a dir poco stravagante, che si concretizza nel premiare le imprese con la più elevata incidenza dei dipendenti in rapporto al fatturato. Si badi che il rapporto fatturato/dipendenti è una misura della produttività del lavoro (in valore): l’intervento, privo di qualunque significato economico, incentiva dunque le imprese meno efficienti, ovvero quelle con la produttività più bassa. Esattamente quello che la teoria economica suggerisce di non fare! In più, il meloniano “più assumi, meno paghi” spinge anche le imprese ad assumere lavoratori poco qualificati, dal momento che costano meno e questa scelta dà comunque diritto al bonus governativo.
[4] Quello del ritardo dei pagamenti è uno degli indicatori maggiormente rilevanti dell’efficienza della P.A. Gli altri sono in questa lista: Pressione finanziaria; Pressione tributaria; Intervento erariale; Intervento regionale; Velocità di riscossione delle entrate proprie; Velocità di gestione delle spese correnti; Indicatori desunti dai servizi indispensabili; Parametro di efficacia relativo all’istruzione primaria e secondaria; Parametro di efficacia relativo al servizio acquedotto; Parametro di efficacia relativo al servizio di nettezza urbana; Indicatori desunti dai servizi a domanda individuale; Parametro di efficacia relativo agli asili nido; Parametro di efficacia relativo agli impianti sportivi; Parametro di efficienza relativo agli asili nido; Parametro di efficienza relativo agli impianti sportivi; Proventi relativi agli asili nido; Indicatori desunti dai servizi diversi, al quale si aggiunge l’indicatore europeo EQI – European quality of government index.
[5] Appare evidente, in tal senso, che l’efficienza non può essere imposta per legge e che questo spiega il sostanziale fallimento dei provvedimenti degli ultimi anni. E’ stato recentemente messo in evidenza che, nel settore pubblico, “l’efficienza richiede capacità di individuare obiettivi concreti e misurabili calibrati sulle esigenze della collettività di riferimento, il coinvolgimento effettivo delle categorie interessate all’esercizio dell’attività pubblica, la capacità di superare la logica dell’adempimento, spostando il baricentro dell’attività amministrativa e dei rapporti con i privati e le categorie interessate su un piano manageriale e negoziale, e non burocratico-formale, la responsabilizzazione di strutture burocratiche e personale” (Immordino, 2023). E’ condivisibile, tuttavia, la posizione dei sindacati di base per la quale le differenze salariali interne alla P.A. possono finire per risultare dall’arbitrio dei dirigenti e, dunque, a rendere controproducente e inapplicabile una strategia “meritocratica”.