In precedenti contributi a questa rivista (come del resto in numerose e autorevoli altre sedi) si è sostenuto che negli ultimi decenni vi è stata una redistribuzione del reddito a sfavore del lavoro dipendente di grande portata. Intorno a questo si è sviluppata una discussione che ha visto un mio commento a un post di Giulio Zanella ed una sua risposta (noisefromamerica 7/1/2011), che difende alcune scelte metodologiche relative all’uso dei dati che io avevo criticato. La questione è rilevante, in quanto il modo in cui si utilizzano i dati può permette di vedere, o invece offuscare, l’entità di un fenomeno che ha evidentemente una grande rilevanza sociale ed economica. Se infatti la redistribuzione del reddito è avvenuta e ha dimensioni rilevanti, ne discendono problemi di equità e coesione sociale, e anche conseguenze macroeconomiche negative per l’andamento dei consumi, e quindi della domanda aggregata e dell’occupazione (si veda in proposito Stirati, le premesse teoriche della lettera degli economisti, su questa rivista).
La materia del contendere riguarda in particolare due punti:
1 – se sia più opportuno utilizzare la quota dei redditi da lavoro sul PIL “corretta” mediante l’imputazione al lavoro autonomo di un reddito da lavoro pari al reddito medio da lavoro dipendente o, come suggerito da Zanella, la quota sul PIL dei redditi del solo lavoro dipendente.
2 – se (come sostenuto da Zanella) l’incremento delle imposte indirette sia determinante nel causare la riduzione della quota del lavoro dipendente in Italia e se quest’ultima diminuisca quindi a favore “del governo” piuttosto che dei redditi da capitale.
Dato che la discussione nei paragrafi successivi potrebbe risultare un po’ tecnica per non economisti, riassumo qui il senso delle mie argomentazioni.
Per quanto riguarda il primo punto, l’uso della quota del lavoro “corretta” ci permette di avere un dato che riflette unicamente il rapporto tra salario e prodotto medio per lavoratore, mentre la quota non corretta riflette anche il rapporto tra lavoro dipendente e occupazione totale, che è cresciuto negli ultimi decenni in tutti i paesi industrializzati, spesso in misura rilevante. La crescita di tale rapporto fa aumentare la quota dei redditi da solo lavoro dipendente, offuscando così gli effetti negativi sulla quota stessa della caduta del rapporto tra salario e prodotto per lavoratore e impedendo quindi di identificare e quantificare correttamente gli effetti del cambiamento nella distribuzione.
Per quanto riguarda il secondo punto, un uso appropriato dei dati mostra che la quota dei redditi da lavoro è diminuita in Italia a favore dei redditi da capitale e che la crescita delle imposte indirette non è determinante nella variazione della quota dei redditi da lavoro.
Vorrei infine precisare che le argomentazioni che seguono riguardano strettamente l’uso appropriato dei dati per rispondere alle domande che ci poniamo, e non derivano quindi da una particolare interpretazione dei dati stessi o dei fatti.
Perché utilizzare la quota corretta
La principale obiezione di Zanella all’uso della quota corretta (cioè stimata attribuendo ai lavoratori autonomi un reddito da lavoro pari a quello dei dipendenti) è che qualsiasi suddivisione dei redditi da lavoro autonomo tra redditi da lavoro e redditi da capitale è arbitraria. Si potrebbe osservare che, arbitrario per arbitrario, sembra comunque più ragionevole attribuire una parte del reddito degli autonomi ad attività lavorativa piuttosto che considerarlo per intero come reddito da capitale. Tuttavia non voglio entrare in questa discussione, perché essa in realtà non è rilevante per il nostro problema, che non è relativo alla natura ed entità dei redditi da lavoro autonomo.Come correttamente osserva Zanella (p.3 della replica su noisefromamerica) la domanda che ci poniamo è qual è la distribuzione che si realizza tra lavoro dipendente e capitale. Idealmente, per rispondere a questa domanda, noi dovremmo considerare il valore aggiunto prodotto in media da una unità di lavoro dipendente e chiederci in che proporzione esso sia destinato alla retribuzione media di una unità di lavoro dipendente. Dovremmo cioè considerare il rapporto tra reddito medio per unità di lavoro dipendente e PIL per unità di lavoro dipendente (indichiamo tale rapporto, in simboli, come r/prd). I dati statistici ci consentono di conoscere il primo (r) ma non il secondo (prd). Non siamo infatti in grado di separare il PIL prodotto dai lavoratori dipendenti da quello prodotto dai lavoratori autonomi. La migliore approssimazione che possiamo avere è quindi il rapporto tra reddito medio per unità di lavoro dipendente e prodotto medio per unità di lavoro complessivamente prestato, sia dipendente che autonomo (cioè la produttività media del lavoro, che indico con pr).[1] Allora il punto è che la quota del lavoro “corretta” equivale proprio al nostro r/pr . Che sia così risulta evidente dai rapporti di equivalenza puramente definitori illustrati qui sotto:
Quota del lavoro “corretta” ≡ r x (lavoratori dipendenti + lavoratori autonomi) / pr x (lavoratori dipendenti + lavoratori autonomi)
Da cui
Quota del lavoro “corretta” ≡ r/pr
Il valore della quota corretta quindi dipende unicamente da reddito medio da lavoro dipendente e produttività media del lavoro;
se consideriamo invece la quota non corretta abbiamo:
Quota del lavoro ≡ r x lavoratori dipendenti / pr x (lavoratori dipendenti + lavoratori autonomi)
E quindi
Quota del lavoro ≡ ( r/pr) x (lavoratori dipendenti/ lavoratori dipendenti + lavoratori autonomi)
Quindi, come già argomentato nel mio precedente commento, la quota non corretta riflette contemporaneamente due variabili: il rapporto tra reddito da lavoro e produttività ed il rapporto tra lavoro dipendente e occupazione totale, e non consente quindi di distinguere a quale di queste due variabili sia dovuto il livello e/o il cambiamento della quota.[2] Se la domanda che ci poniamo riguarda la distribuzione del reddito nell’ambito del rapporto di lavoro dipendente la quota corretta rappresenta il dato più “pulito” che possiamo avere, mentre la quota non corretta rappresenta un dato “sporco” un dato cioè che da’ una risposta non interpretabile senza ulteriori informazioni.
Perché usare il PIL stimato al costo dei fattori quando si guarda all’andamento delle quote
Come vedremo la questione è dal punto di vista metodologico simile alla precedente, in quanto anche in questo caso si tratta di scegliere tra un dato che riflette esclusivamente l’andamento della distribuzione (il rapporto r/pr) e uno che riflette contemporaneamente l’andamento della distribuzione e di un’altra grandezza.
Zanella suggerisce l’uso della quota stimata sul PIL ai prezzi di mercato (comprensivo cioè delle imposte indirette nette) e non del PIL al costo dei fattori, con la motivazione che quelle imposte fanno parte del reddito, perché qualcuno le paga. Argomenta poi che l’incremento delle imposte indirette grava principalmente sui redditi da lavoro, in quanto trova una stretta relazione tra aumento delle imposte indirette e riduzione della quota del reddito che va al lavoro dipendente.
Certamente è vero che le imposte fanno parte del reddito perché qualcuno le paga, ma di nuovo il punto non è questo. Il punto è che per come sono costruiti, da questi dati noi non possiamo vedere quanto tali imposte effettivamente ricadono sui diversi tipi di reddito. In questi dati infatti per costruzione il PIL ai prezzi di mercato viene ottenuto sommando ai redditi primari (che coincidono con il PIL al costo dei fattori) l’ammontare delle imposte indirette nette. Quindi, a parità di redditi primari distribuiti, un aumento di tali imposte determina un aumento del PIL ai prezzi di mercato. Pertanto la relazione negativa trovata da Zanella tra l’andamento della quota dei redditi da lavoro sul PIL ai prezzi di mercato e l’andamento delle imposte indirette nette ha natura puramente contabile e deriva dal cambiamento del denominatore della frazione (il PIL ai prezzi di mercato) che per costruzione diventa più grande all’aumentare delle imposte. Come mostrano i grafici qui sotto una relazione del tutto simile e simmetrica esiste, ovviamente per la stessa ragione, anche tra l’andamento delle imposte indirette e l’andamento della “quota del capitale” (i dati sono tratti dal database Ameco, 2009). In sostanza quindi, mentre le quote misurate sul PIL ai prezzi di mercato riflettono oltre alla distribuzione del reddito tra lavoro dipendente e capitale anche l’andamento delle imposte indirette (che cambiano il valore del denominatore) le quote stimate sul PIL al costo dei fattori non dipendono da cambiamenti nelle imposte indirette e rappresentano quindi un dato più “pulito” cioè più chiaramente interpretabile per rispondere alla domanda che ci stiamo ponendo.
Questo naturalmente non significa che, da un punto di vista economico, le imposte indirette non abbiano effetti avversi ai lavoratori – è infatti ben noto che esse tendono a gravare in misura proporzionalmente maggiore sui redditi bassi[3] – ma significa che non sono questi i dati che possono darci delle informazioni in merito.
Perché guardare alla distribuzione primaria?
Zanella si chiede perché guardare alla distribuzione primaria piuttosto che al reddito disponibile delle famiglie, che dipende anche dall’attività redistributiva del settore pubblico attraverso le imposte e i trasferimenti (e, bisognerebbe aggiungere, anche attraverso la produzione di beni e servizi pubblici). La principale risposta, molto semplice, è che la distribuzione primaria del reddito è di per sé molto rilevante, ed i suoi cambiamenti per molto tempo non sono stati colti dagli economisti proprio perché è invece stata trascurata come oggetto di studio.[4] La redistribuzione del reddito per via fiscale inoltre può in parte correggere, ma non è generalmente in grado di ribaltare le tendenze poste in essere dall’andamento della distribuzione primaria, e ciò meno che mai in Italia, dove il prelievo fiscale diretto di fatto pesa in proporzione molto più elevata sui redditi da lavoro dipendente che su altri tipi di reddito.I
In conclusione, i dati appropriati a rispondere alla domanda su come è cambiata la distribuzione tra redditi da lavoro dipendente e redditi da capitale sono quelli utilizzati nel mio precedente commento (e in generale nella letteratura scientifica sull’argomento), e indicano un rilevante cambiamento a sfavore del lavoro dipendente.