La riforma federalista italiana prosegue a grandi passi, ma si tratta di un “federalismo avvelenato”[1]. Il decreto su fisco regionale e sanità – il principale dal punto di vista dell’impatto finanziario – ha ricevuto un consenso molto ampio nella Commissione bicamerale per il federalismo fiscale. Con il voto del 24 marzo 2011 (reso agevole dall’astensione del Pd) molti hanno parlato di una “bella pagina” per la politica italiana, le Regioni hanno affermato di aver ottenuto “tutto” e ad applaudire non è stata soltanto la Lega Nord.
Eppure i contribuenti, del Sud e non solo, hanno poco da festeggiare. Infatti con il compromesso del 24 marzo la clausola di salvaguardia prevista nel testo originale del decreto contro gli aumenti dell’Irpef regionale per i redditi del secondo scaglione, ovvero la fascia tra i 15.000 e i 28.000 euro all’anno, è saltata. Le Regioni – e il Pd che le sosteneva – hanno affermato di aver ottenuto “tutto”, e in questo “tutto” c’è l’opportunità di aumentare l’addizionale Irpef regionale (oggi allo 0,9%) fino al 3% anche su redditi oggettivamente bassi. Evidentemente, per le Regioni la possibilità di aumentare l’Irpef è considerata una conquista. Eppure ridurre al pressione fiscale sui redditi dovrebbe essere un obiettivo comune. Non è in fondo questo che si riprometteva la riforma federalista?
Certo, nel compromesso finale gli enti locali hanno ottenuto molte altre cose. Sono arrivati fondi liquidi per il trasporto pubblico. C’è l’impegno a rivedere i tagli decisi nel 2010. Ma questi sono provvedimenti spot, una tantum, che dovrebbero trovar spazio in una manovra finanziaria se non in un milleproroghe e che non hanno nulla a che vedere con la costruzione dell’architettura federalista, ovvero di regole che gradualmente – tra il 2013 e il 2018 – cambieranno il rapporto tra i contribuenti, gli enti locali e lo stato centrale.
Le regole di base sono rimaste perciò quelle immaginate dal governo. In particolare ci sono due formule che consentono di vanificare il principio costituzionale di servizi minimi di cittadinanza uniformi sul territorio e indipendenti dal reddito.
La prima regola consiste nel cancellare trasferimenti statali a Regioni, Province e Comuni assegnati in base al fabbisogno e sostituirli con una somma identica nel suo complesso ma ricavata grazie a una quota di Irpef vincolata al reddito “riferibile” a un determinato territorio. I bisogni sono proporzionati alla popolazione mentre il gettito Irpef è correlato alla ricchezza, per cui in un paese dualistico come l’Italia è matematico che con tale sistema si crei una disparità nell’erogazione di risorse, che saranno così in eccesso in alcune aree e in difetto in altre. Per le Regioni, in particolare, i trasferimenti da cancellare nel 2013 ammontano a 9 miliardi l’anno, con un beneficio netto per quattro Regioni (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Lazio) e una perdita più o meno vistosa per le altre undici (non va mai dimenticato che i decreti sul federalismo fiscale si applicano soltanto alle 15 Regioni a statuto ordinario). Certo, un meccanismo perequativo attenuerà il bonus per le Regioni avvantaggiate e ridurrà il danno per quelle taglieggiate, ma la direzione di marcia è chiara.
Sarebbe bastato coprire il taglio di trasferimenti statali invece che con l’Irpef con l’accisa sui tabacchi e il risultato sarebbe stato molto diverso, perché il consumo di sigarette è abbastanza omogeneo sul territorio e nessuna Regione avrebbe perso o guadagnato troppo. Un emendamento in tal senso è stato avanzato da me e Pittella[2], per essere poi ripreso dal “Sole 24 Ore”, che il 23 marzo ha titolato proprio sul nodo dei tabacchi come possibile compromesso per allargare il consenso in vista del voto decisivo del 24. L’emendamento, però, è stato affossato, con un danno netto per le regioni del Mezzogiorno stimabile in 700 milioni all’anno.
Eppure l’idea dei tabacchi non era strampalata, se la si guarda dal punto di vista di un sistema di fisco federale, dove c’è il massimo legame possibile tra imposte pagate e servizi erogati. L’accisa sui tabacchi infatti si spiega con il fatto che il fumatore si ammala con maggior frequenza e quindi contribuisce così a pagare la cura per le malattie che rischia di procurarsi. E le Regioni hanno l’assistenza sanitaria come proprio “core businnes”.
Se l’idea dei tabacchi è stata bocciata, quindi, non è per la sua estemporaneità ma perché non risponde all’obiettivo fondamentale della Lega: trasferire al Nord più soldi possibile. Non a caso le imposte che sono state assegnate alle Regioni, l’Irpef e l’Irap, sono le più sperequate nel gettito territoriale, mentre sono state scartate quelle relativamente più equilibrate e cioè l’accisa sui tabacchi, quella sui carburanti e i proventi dalle lotterie.
C’è poi la seconda formula contabile, che avrà effetti devastanti per il Mezzogiorno. Nella distribuzione dei fondi sanitari la Costituzione obbliga alla copertura del 100% del fabbisogno. Il trucco consiste nel calcolare in modo anomalo il fabbisogno. Come si procede? Si individuano delle Regioni campione (tre, di cui una del Sud in modo da sviare l’attenzione dal vero artifizio contabile) e si calcola il costo medio per l’assistenza sanitaria procapite. Non tutte le persone però hanno il medesimo fabbisogno sanitario: in particolare gli anziani e i malati cronici hanno necessità di cure più massicce. Gli anziani sono in proporzione più numerosi al Nord, i malati cronici tra le fasce sociali deboli e quindi al Sud. Il trucco è semplicissimo: si pesano gli anziani e si ignorano i malati cronici. Un trucco che sposterà a regime, cioè nel 2018, cinque miliardi di euro annui dal Sud al Nord.
Va sottolineato che la formula utilizzata per la sanità non ha nulla a che vedere con l’obiettivo di controllare la qualità del servizio e di intercettare gli sprechi. I famosi costi standard non sono calcolati sui singoli servizi perché per le tre regioni di riferimento si prende il piè di lista. In pratica con tale formula una Regione del Sud sprecona finirà le risorse ad agosto e una Regione del Sud che raggiunge la piena efficienza e rispetta gli obiettivi le finirà a novembre. Infatti, visto che non sono conteggiati i maggiori costi dei malati cronici, nessuna potrà più garantire il 100% dei servizi minimi essenziali per tutto l’anno.
*Scrittore e giornalista, autore (con G. Pittella) del libro Federalismo avvelenato (Zefiro, Roma).