L’indebitamento delle imprese, ovvero come le imprese miscelano capitale di rischio a capitale di credito per finanziare i propri investimenti, è da sempre un tema di grande attualità e rilevanza, sia sul piano teorico che dei concreti processi decisionali delle imprese. La teoria finanziaria ha elaborato sofisticati modelli che spiegano come le imprese dovrebbero scegliere il mix ottimale, ovvero indicano quali fattori sono rilevanti nella scelta. Volendo semplificare, due sono le principali macro-categorie di determinanti. Da una parte le imperfezioni dei mercati finanziari (imposte, costi di dissesto/fallimento, costi/benefici di agenzia del debito, asimmetrie informative, ecc.), che creano opportunità di valore per le imprese, a favore dell’una o dell’altra fonte di capitale: a titolo di esempio, in tutti i regimi fiscali del mondo, il debito presenta un vantaggio fiscale (che può essere di maggiore o minore entità) rispetto al capitale di rischio. Dall’altra parte, gli assetti proprietari e di governance delle imprese e gli aspetti soggettivi/behavioural sottostanti, che possono orientare la scelta verso un mix di fonti piuttosto che un altro, in funzione delle preferenze soggettive dei decisori: si pensi, ad esempio, agli effetti (peraltro non univoci) che la natura familiare della proprietà-governance dell’impresa può avere sulla scelta della struttura finanziaria.
La letteratura internazionale ha anche prodotto una mole di studi empirici che testano le teorie su campioni di imprese i più variegati (per settore, paese, dimensione, assetto proprietario, ecc.) con risultati che talora supportano e talora contraddicono le teorie via via testate.
Si tratta anche di un tema che, come pochi altri, soffre di molti luoghi comuni, almeno per quanto riguarda le imprese italiane, potremmo dire di “miti negativi” addotti spesso per spiegare la vulnerabilità dell’Italia nel confronto internazionale ovvero per sostenere misure straordinarie di politica economica del governo di turno. Questi i luoghi comuni più frequentemente citati:
a) le imprese italiane sono più indebitate delle imprese europee
b) tra le imprese italiane, le PMI sono le più indebitate: cioè l’indebitamento si ridurrebbe con la dimensione
c) le PMI italiane sono troppo squilibrate verso il debito finanziario a breve termine
d) le PMI sono meno solide patrimonialmente e meno solvibili finanziariamente: cioè ci sarebbe una presunta maggiore vulnerabilità finanziaria delle PMI italiane come conseguenza dei punti b) e c) precedenti.
A ciò si aggiunge, in questi mesi di crisi, il paradosso di considerare “salvifico” il credito bancario alle imprese, dimenticando in questo caso i rischi di un eccessivo indebitamento. Si bacchettano da più parti (confindustria, governo, ecc.) le banche perché avrebbero ristretto l’accesso al credito delle imprese, penalizzando soprattutto le imprese più piccole (sempre quelle, già considerate vulnerabili perché troppo indebitate) e le imprese meridionali (ed ecco spuntare, in risposta, la Banca del Mezzogiorno).
Ci sembra quindi quanto mai necessario fare chiarezza sul tema.
Ci proponiamo quindi di dimostrare, con il supporto di dati rigorosi e correttamente interpretati, la falsità di alcuni “miti negativi” sull’indebitamento delle imprese italiane e di chiarire i legami tra indebitamento e crisi in atto.
La Tavola 1 (Banca d’Italia 2009a) riporta la struttura dei passivi a valori percentuali dell’aggregato delle imprese non finanziarie e mostra che il primo mito (punto a)) è falso.
Prescindendo per ora dagli effetti della crisi attuale e fermandoci quindi all’ultimo anno ante-crisi (il 2006), la tavola mostra che le imprese italiane non finanziarie non presentano livelli di indebitamento finanziario sostanzialmente differenti da quelli delle imprese dell’area euro. La situazione del 2006 è frutto di un processo virtuoso, partito nella seconda metà degli anni ’90, che ha riportato l’indebitamento finanziario delle imprese italiane sostanzialmente in linea con gli standard europei. Qualche differenza si riscontra ancora a livello di indebitamento totale, che include tra i debiti anche le fonti spontanee, che però non dipendono da scelte esplicite di finanziamento delle imprese, ma dalle caratteristiche del business (il fondo TFR dal peso che ha il capitale umano), dal contesto normativo (sempre il TFR), dall’organizzazione della filiera produttiva e da prassi di settore circa i pagamenti delle forniture (i debiti commerciali). E hanno natura di passività ben diversa dai debiti finanziari.
Circa il presunto maggiore indebitamento finanziario delle PMI italiane rispetto alle imprese di maggiore dimensione (punto b)), ci chiarisce le idee la Tavola 2 (Coltorti 2009a) che, sempre con riferimento al 2006, confronta la composizione dell’attivo e del passivo di aggregati di imprese di diversa dimensione.
Dalla tavola emerge che le imprese meno indebitate (e quindi più patrimonializzate) sono le imprese del c.d. quarto capitalismo, come lo ha definito l’Ufficio Studi di Mediobanca (Coltorti 2008), cioè le imprese medie con assetto proprietario autonomo, addetti compresi tra 50 e 499 e fatturato compreso tra 13 e 290 milioni di euro (4300 circa) e le imprese medio-grandi (con fatturato superiore ai 290 milioni ma entro i 3 miliardi). Si tratta di un aggregato di imprese manifatturiere caratterizzate da un modello aziendale omogeneo (controllo familiare, attività produttiva specializzata su prodotti di nicchia ad elevata qualità) che, considerando l’indotto, incide per oltre la metà dell’attuale produzione manifatturiera italiana. Va notato che le medie imprese industriali italiane (MI) si concentrano per metà circa nella fascia dimensionale 50-99 addetti e per un altro 44% tra 100 e 249 addetti, quindi sono più piccole di quanto il range definitorio possa far pensare (la mediana è di 109 addetti).
Più indebitate risultano invece le classi dimensionali estreme, e cioè sia le PMI[1] sia, all’estremo opposto, i maggiori gruppi italiani (pubblici e privati) e le multinazionali europee. I maggiori gruppi italiani, oltre ad essere molto indebitati (in aggregato oltre il 60% del capitale finanziario investito), presentano livelli di leva azionaria molto elevati (tra 12 e 15 in Pirelli, Italmobiliare, Enel, Telecom, addirittura 29 in Ifi/Fiat), cioè il complessivo capitale finanziario investito, a titolo di rischio (fornito dal controllante e dalle minoranze) o di credito, è 12, 15 o 29 volte il capitale che rischia in proprio l’azionista di controllo. Cioè a dire che l’azionista di controllo fa impresa prevalentemente con i soldi degli altri (banche o investitori che siano).
La tavola mostra anche la composizione dell’attivo e si nota che la maggiore incidenza del debito finanziario a breve nelle prime tre categorie di imprese (PMI, MI e medio-grandi) non implica affatto una minore solidità patrimoniale (e qui cadono i luoghi comuni sub c) e d)). Tutt’altro, se correttamente si riferisce la composizione dei passivi alla composizione degli attivi. Queste imprese hanno infatti attivi più leggeri, in cui una parte rilevante (due terzi circa nelle PMI e nelle MI) è rappresentata dal capitale circolante, che genera un fabbisogno in parte stabile, ma che ruota annualmente in termini di flussi generati e assorbiti. Sono imprese che operano nei settori del made in Italy (alimentare, abbligliamento e moda, tessile, pelli e cuoio, e in genere i beni per la cura della persona e della casa; inoltre, meccanica leggera, elettromeccanica, ecc.), che richiedono minori investimenti fissi, e che quando operano all’interno di distretti riescono a distribuire i fabbisogni per immobilizzi lungo la filiera. Si può vedere che il capitale di rischio copre interamente gli investimenti fissi solo nelle MI propriamente dette (il rapporto tra mezzi propri e attivo fisso è del 120%) mentre il grado di copertura scende al 70% e al 63% rispettivamente nel caso dei maggiori gruppi italiani e nelle multinazionali europee, cioè nelle imprese più grandi (peggio che nell’aggregato delle PMI per le quali la copertura è dell’85%).
Quindi in breve le MI italiane sono le meno indebitate finanziariamente e le più solide patrimonialmente. Il dato viene confermato dal tasso medio di fallimento che per le medie imprese è dello 0,2% (sale all’1% per le medio-grandi). E leggendo l’ottima indagine Mediobanca-Unioncamere sulle medie imprese industriali italiane, redatta con cadenza annuale a partire dal 2000 (e scaricabile gratuitamente dal sito http://www.mbres.it/), scopriamo che sono imprese virtuose anche per altri motivi: nel 2005 hanno contribuito al 15% del valore aggiunto dell’industria manifatturiera italiana e a oltre il 20% delle esportazioni nazionali.
Penati in un recente articolo (Affari&Finanza del 19 ottobre us) ha definito “diffusa e grave la debolezza finanziaria delle medie imprese italiane”, basandosi su dati non rappresentativi della realtà delle medie imprese industriali italiane e maldestramente interpretati. L’autore fa riferimento a 24 medie imprese industriali quotate in crisi, di cui la Consob chiede il monitoraggio continuo: di vere MI, secondo la definizione di Mediobanca-Unioncamere, ce ne sarebbero solo 3 (Aicon, Cobra e Olidata), e cioè il 12% delle quotate (che ad oggi sono in tutto 25) e meno dell’0,1% dell’universo. Tuttavia, pur accettando che siano tutte MI come dice Penati (che adotta un criterio dimensionale basato sull’attivo investito), sono meno dello 0,6% dell’universo delle MI. Un po’ poco per definirlo, come fa Penati, “uno spaccato rappresentativo della tipica impresa italiana, manifatturiera e di medie dimensioni”. A riprova di come dai “falsi miti” di cui sopra non siano immuni neppure gli addetti ai lavori. L’unico dato certo che emerge, confrontando l’1% delle MI quotate con il 99% delle non quotate, è semmai che la quotazione non giova, almeno alle MI industriali italiane.
Veniamo alla crisi. Nel 2008 l’indebitamento finanziario delle imprese non finanziarie aumenta (Tavola 3) e si tratta di fenomeno che non riguarda solo l’Italia. Insieme all’indebitamento aumenta l’incidenza degli oneri finanziari sul margine operativo lordo (MOL) (è un quinto nel 2008), sia perché aumenta l’indebitamento sia perché diminuisce il MOL, e si riduce il tasso di autofinanziamento dei nuovi investimenti (dal 60% circa del 2006 al 40% del 2008), a fronte di una riduzione dell’autofinanziamento e di una riduzione meno marcata (o stagnazione) degli investimenti. Il costo del credito si riduce, ma aumenta il differenziale tra tasso medio e tasso minimo sui prestiti bancari a breve termine, a riprova di un maggiore premio per il rischio chiesto dalle banche e della sensibilità del tasso al merito di credito.
Merita però un approfondimento il legame indebitamento-crisi. Senza pretendere di generalizzare, facciamo riferimento ad un settore emblematico, quello dell’auto, che è stato non solo in Italia ma anche all’estero il settore che maggiormente sembra aver sofferto della crisi in atto: si pensi al dissesto-fallimento di emblemi dell’industria americana. Oltre ad essere stato anche il settore che maggiormente ha usufruito degli aiuti di stato: oltre 26 miliardi di $ dal Governo USA alla General Motors e oltre 12 miliardi di dollari alla Chrysler (prima e dopo accordo con la Fiat). La Tavola 4 (Coltorti 2009a) mostra l’indebitamento di alcuni dei principali attori dell’industria dell’auto nel 2006 (Fiat, Volkswagen e Ford), e cioè prima della crisi (confrontato con il dato di 36 anni prima). Come si vede si tratta di imprese in grave squilibrio finanziario già prima della crisi, con i debiti finanziari che pesano dal 75% al 100% del capitale finanziario. Anche l’attivo nel 2006, rispetto al 1970, mostra una radicale trasformazione, con riduzione marcata dell’attivo immobilizzato e incidenza elevata dell’attivo circolante. Si tratta di un evidente spostamento al di fuori delle imprese del processo produttivo. La Tavola 5 (Coltorti 2009a) completa il quadro distinguendo per natura – finanziaria o industriale – l’attivo: si nota l’incidenza marcata degli attivi finanziari, che superano il 70% dell’attivo totale e rappresentano crediti concessi alla clientela per il finanziamento degli acquisti di auto. Come dire che le imprese del settore si sono fatte un po’ banche per stimolare le vendite. Questo spiega con evidenza, almeno nel caso delle imprese del settore auto, che il rapporto crisi-indebitamento è rovesciato: la difficoltà di riscossione dei crediti verso i clienti (per i consumi gonfiati) e l’eccessivo indebitamento delle imprese del settore hanno rappresentato un canale di trasmissione della crisi estremamente veloce, traducendo l’insolvenza dei clienti in insolvenza dei produttori.
Ragioniamo ora sul versante della restrizione del credito bancario. Guardando più in dettaglio all’ultimo anno e mezzo (dicembre 2007-giugno 2009) di prestiti del sistema bancario al settore produttivo (Banca d’Italia, 2009c), emergono le seguenti evidenze:
− i prestiti vivi al settore produttivo aumentano, almeno nominalmente, anche se la crescita rallenta in maniera sensibile (ma in l’Italia in maniera non dissimile dagli altri paesi dell’area euro)
− diminuiscono i prestiti bancari alla manifattura a partire dal secondo trimestre del 2009 (nel sud-isole il calo si manifesta già dall’ultimo trimestre del 2008). L’incidenza del credito bancario alla manifattura si riduce sul totale Italia di circa un punto e mezzo percentuale, che significa una diminuzione di circa 1 md di euro (a luglio 2009 si registra un’ulteriore diminuzione di un altro miliardo)
− nel periodo considerato non si modifica la ripartizione tra nord, centro e sud-isole del totale dei prestiti vivi al settore produttivo. Nei prestiti alla manifattura, invece, si verifica un travaso dal sud-isole al nord di circa mezzo punto % del totale (che semplificando significherebbe che la riduzione dei prestiti alla manifattura è avvenuto tutto a carico delle imprese del mezzogiorno)
− si riduce di un punto percentuale l’incidenza sul totale dei prestiti bancari alle imprese con meno di 20 addetti, rispetto a quelle con più di 20 addetti.
Che diminuiscano i tassi di crescita dei prestiti bancari con la recessione è del tutto fisiologico. Peraltro in Italia per tutto il 2007 i prestiti hanno continuato a crescere a tassi crescenti per le imprese con più di 20 addetti, toccando punte inusuali. Ma come interpretare la contrazione (dei tassi di crescita) del credito bancario con l’aumento dell’indebitamento finanziario delle imprese? E il sistema bancario come ha stretto (se li ha stretti) i rubinetti del credito?
Alcune indicazioni ci vengono sia dall’Indagine Invind della Banca d’Italia[2] che dall’Indagine Unioncamere sulle medie e piccole imprese industriali italiane.
Secondo l’Indagine Invind (Banca d’Italia, 2009b) risulta che:
− la crisi economico-finanziaria ha interessato circa due terzi delle imprese (più l’industria che i servizi), con un maggiore impatto sulle imprese del nord, con meno di 200 addetti e con una maggiore quota di export (e rispetto alla recessione del 1992-1993 non è di aiuto l’euro forte)
− la crisi è stata soprattutto una crisi di domanda (per l’80% nell’industria) e di difficoltà di riscossione dei crediti alla clientela (per due terzi)
− le difficoltà sul lato reperimento fonti di finanziamento sono molto meno rilevanti: le segnala solo il 15% del campione.
Quindi, in sintesi, le imprese hanno ridotto gli investimenti (nell’industria si rileva una sostanziale stagnazione) ed è naturale che di conseguenza abbiano ridotto (o non variato) la domanda di prestiti alle banche: infatti più di tre quarti delle imprese non hanno fatto domanda di ulteriore credito alle banche. Ciononostante, l’indagine sottolinea come si sia manifestato un più difficile accesso al credito bancario: il 38% circa delle imprese industriali segnala un inasprimento delle condizioni di accesso e il 13% la richiesta di rientro da posizioni debitorie in essere. Inoltre, si evidenzia come sia passata dal 3% (2007) all’8% (2008) la percentuale di imprese che si è vista rifiutare il credito dalle banche (incremento superiore, sottolinea la Banca d’Italia, a quello registrato nell’ultima crisi recessiva del 1992-1993).
Guardando all’Indagine Unioncamere (universo delle MI industriali italiane + piccole imprese tra 20 e 49 addetti – Gagliardi 2009), si rileva che il 30% circa sia delle MI che delle PI ha incontrato difficoltà di accesso al credito bancario negli ultimi 6 mesi (quindi meno del campione Invind, che è spostato sulle imprese maggiori). Del restante 70%, il 17% non lo ha richiesto e il 53% lo ha richiesto, ma non ha incontrato difficoltà (un po’ più alta la prima percentuale per le PI). Delle MI che hanno incontrato difficoltà di accesso, per poco meno della metà la difficoltà si è tradotta in una riduzione in ammontare del finanziamento erogato. Ma sempre da questa indagine emerge che si tratta per la maggior parte di imprese che avevano un merito di credito basso (Tavola 6) e che avevano registrato difficoltà economiche già nel 2008 (fatturato o ordinativi in calo).
La maggiore restrizione per le imprese del sud-isole nel settore della manifattura trova una duplice spiegazione, sia nei tassi di sofferenza dei prestiti bancari che nella dinamica pre-crisi degli impieghi. La Tavola 7 mostra il flusso delle sofferenze in percentuale dei prestiti non in sofferenza a giugno 2009 e a dicembre 2007. E’ ragionevole ritenere che la contrazione abbia riguardato prima le imprese del sud-isole che presentavano tassi di sofferenza più elevati. Questi tassi sono aumentati tutti nel giugno 2009, ma meno per le imprese del sud-isole rispetto a quelle del nord e del centro e questo sembrerebbe proprio in virtù di una politica di concessione del prestito più selettiva da parte delle banche. E, tuttavia, i tassi di sofferenza nel mezzogiorno restano superiori. In aggiunta si consideri che i prestiti bancari alle società non finanziarie nel 2006 erano aumentati dell’11,6% rispetto al 2005. E la crescita nel mezzogiorno d’Italia era stata quasi doppia.
Quindi, per dirla in breve, il problema principale delle imprese in crisi non è il razionamento del credito bancario. I prestiti bancari sono calati o cresciuti meno perché le imprese investono meno e perché le banche hanno adottato politiche più selettive di accesso al credito, dato il peggioramento delle condizioni economiche delle imprese. E se nonostante ciò l’indebitamento finanziario delle imprese italiane è aumentato di 6 punti percentuali nel 2008 rispetto al 2006, c’è da chiedersi che cosa sarebbe successo se non lo avessero fatto. In altre parole, non può essere il credito bancario a risolvere difficoltà che sono di natura reale. Come il settore auto insegna, un eccessivo indebitamento non risolve, ma genera o amplifica la crisi.
Viziato dallo stesso paradosso sembra il recente varo della Banca del Mezzogiorno. Sempre con riferimento all’ultimo anno pre-crisi (2006), la Tavola 8 mostra la ripartizione per macro-aree territoriali di alcune variabili di offerta (banche, sportelli, impieghi, tassi, sofferenze) e di domanda (indicatori di attività economica) del credito bancario per le imprese. Con tutte le cautele del caso, trattandosi di dati aggregati, la presenza di banche e sportelli bancari nel mezzogiorno d’Italia non sembra così inadeguata rispetto al potenziale di domanda, nel confronto con il resto d’Italia. Sembrerebbe esserci uno sbilanciamento a favore del Centro-Nord nella ripartizione degli impieghi, ma se si guardano gli impieghi e il valore aggiunto all’industria e se si considerano i tassi di sofferenza degli impieghi non è più così certo. Possiamo inoltre trarre qualche utile indicazione dall’aggregato delle MI industriali italiane, che per quanto detto sopra possiamo utilizzare come benchmark di solidità finanziaria. La Tavola 9 (Coltorti 2009b) mostra che le MI del mezzogiorno già nel 2006 risultavano più indebitate della media italiana (anche se di poco), ma comunque erano meno solide patrimonialmente, perché caratterizzate da una maggiore incidenza degli attivi immobilizzati, e meno solvibili finanziariamente, perché caratterizzate da una maggiore incidenza del debito a breve termine sugli attivi circolanti (soprattutto con la crisi attuale che si manifesta anche in termini di difficoltà di riscossione dei crediti alla clientela). E se c’è questo divario per le MI che sono la punta di diamante dell’industria manifatturiera italiana, è ragionevole ritenere che possa esserci anche per le altre categorie di imprese. Ed è anche ragionevole ritenere che nel 2008 la maggiore vulnerabilità finanziaria possa essersi accentuata, dato l’aumento generalizzato dell’indebitamento delle imprese non finanziarie.
Quindi, non è di una maggiore offerta di credito bancario (una banca del sud) che hanno bisogno le imprese italiane del mezzogiorno. Ritenere il contrario significherebbe commettere due errori: il primo è quello di continuare a guardare al lato finanza delle imprese (sono imprese già più vulnerabili finanziariamente); il secondo consiste nel guardare al lato dell’offerta (banca) del finanziamento e non al lato della domanda (impresa), cioè al merito del credito e quindi agli attivi e ai conti economici e, a monte, alle scelte produttive e di mercato che li determinano.
*Ordinario di Finanza aziendale presso l’Università degli Studi di Roma Tre (venanzi@uniroma3.it)