A metà luglio l’Istat ha pubblicato il consueto bollettino annuale[1] sulla povertà relativa ed assoluta nel nostro paese con riferimento al 2009. Il bollettino di quest’anno è di particolare interesse perché ci consente di capire come ha inciso la crisi economica sulle famiglie italiane e, in particolare, su quelle prossime alla condizione di povertà. Tra i dati che emergono dal rapporto ve ne sono alcuni che confermano tendenze consolidate, su cui si è già discusso in passato[2], e altri che invece ne segnalano di nuove sulle quali intendo soffermarmi.
Tra le prime si possono inscrivere: la geografia della povertà che vede nel Mezzogiorno[3] il territorio a maggior concentrazione di famiglie povere sia in termini relativi, sia in termini assoluti (le famiglie povere meridionali sono quattro volte di più della media nazionale); la relazione positiva tra numerosità del nucleo familiare e rischio povertà (a famiglie più numerose si associa maggiore rischio di povertà); e quella tra titolo di studio e povertà (il rischio di povertà è associato in maniera inversa al titolo di studio della persona di riferimento: maggiore rischio per minore istruzione).
Tra le tendenze che segnano delle novità ve ne sono alcune su cui vale la pena soffermarsi. Si tratta dell’aumento dell’incidenza[4] della povertà tra le persone giovani; dell’aumento dell’incidenza della povertà tra le famiglie di operai; della riduzione dell’incidenza della povertà tra i lavoratori autonomi; dell’aumento dell’intensità[5] della povertà assoluta.
Da un punto di vista metodologico l’Istat definisce “relativamente povere” quelle famiglie che si collocano al di sotto di una “linea di povertà” definita in termini di consumi medi pro capite.Nel 2009, la linea di povertà relativa è risultata pari a 983,01 euro[6], circa 17 euro inferiore a quella del 2008, in ragione del fatto che la spesa per consumi ha mostrato, tra il 2008 ed il 2009, una flessione in termini reali, particolarmente evidente tra le famiglie con livelli di spesa medio-alti, contribuendo ad abbassare la spesa media complessiva e quindi la linea di soglia.Un’ulteriore soglia viene definita per distinguere la povertà relativa dalla povertà assoluta.La stima dell’incidenza della povertà assoluta viene calcolata sulla base di una soglia di povertà che corrisponde alla spesa mensile minima necessaria per acquisire il paniere di beni e servizi che, nel contesto italiano e per una determinata famiglia, sono considerati essenziali a conseguire uno standard di vita minimamente accettabile.
Stando a questi parametri, nel 2009 le famiglie in condizioni di povertà relativa risultano essere 2 milioni 657 mila, rappresentando il 10,8% delle famiglie residenti: si tratta di 7 milioni 810 mila individui poveri, il 13,1% dell’intera popolazione. Se a queste famiglie si aggiungono quelle definite dall’Istat “quasi povere”, ovvero molto prossime alla soglia, si raggiunge un’incidenza superiore al 20% delle famiglie residenti.Allo stesso modo, applicando il parametro di povertà assoluta, si possono contare 1 milione e 162 mila famiglie (il 4,7% delle famiglie residenti) in condizione di povertà assoluta per un totale di 3 milioni e 74 mila individui (il 5,2% dell’intera popolazione).
Se i dati sull’incidenza della povertà non mostrano variazioni di rilievo rispetto al 2008, ciò che è interessante notare sono i cambiamenti nella composizione dei poveri. Anzi, sono proprio tali cambiamenti che spiegano l’invarianza complessiva dell’incidenza della povertà. È lo stesso Istat a spiegare il motivo per il quale la povertà non è cresciuta nell’anno della crisi: “in tale periodo, infatti, l’80% del calo dell’occupazione ha colpito i giovani, in particolare quelli che vivono nella famiglia di origine, mentre due ammortizzatori sociali fondamentali hanno mitigato gli effetti della crisi sulle famiglie: la famiglia, che ha protetto i giovani che avevano perso l’occupazione e la cassa integrazione guadagni, che ha protetto i genitori dalla perdita del lavoro (essendo i genitori maggioritari tra i cassaintegrati)”[7].Ciò equivale a denunciare la totale fragilità delle giovani generazioni, che non sono protette dai rischi né sul lavoro (poiché prevalentemente impiegati con contratti variamente a termine, diversamente dai propri genitori) né sul mercato (a causa della mancanza di ammortizzatori sociali di tipo universalistico e di sussidi di disoccupazione). Si tratta di un dato particolarmente preoccupante che conferma una tendenza in atto, sebbene in maniera meno accentuata, in altri paesi sviluppati. Nell’ultimo rapporto Ocse[8] sulle disuguaglianze tra paesi e all’interno dei paesi, si leggeva che nella media dei paesi analizzati, negli anni recenti, è diminuita la povertà degli anziani mentre è aumentata la povertà dei bambini e dei giovani adulti soli (spesso a seguito di un divorzio o della perdita del lavoro). Nei paesi Ocse i bambini ed i giovani adulti hanno il 25% di probabilità in più di essere poveri rispetto al resto della popolazione. Dati confermati, per l’Italia, dal rapporto sulla povertà e da altre statistiche Istat[9] che segnalano la crescita della povertà tra i minori. Il dato della povertà giovanile, oltre ad essere grave in sé, produce una trasmissione intergenerazionale della povertà (le persone giovani povere genereranno figli poveri i quali, a causa della scarsa mobilità sociale, faranno fatica ad affrancarsi da questa condizione) comportando elevati costi sociali nel futuro.
Tra le altre tendenze degne di nota segnalate in apertura, vi è poi quella relativa all’aumento dell’incidenza della povertà tra le famiglie in cui la persona di riferimento è un operaio/a. Per esse, agli effetti della crisi, si associa una perdita pluriennale del potere d’acquisto dei salari[10]. L’incidenza della povertà relativa per questi nuclei è passata dal 5,9% del 2008 al 6,9% del 2009: si tratta di nuclei costituiti per i due terzi da coppie con figli. Tra questi diminuisce la percentuale di famiglie con più di un occupato, a conferma del fatto che, nel 2009, i giovani che hanno perso il lavoro appartenevano in maniera superiore alla media a famiglie con persona di riferimento operaia[11].Anche la diminuzione dell’incidenza della povertà tra i lavoratori autonomi (dall’11,2% all’8,7% per la povertà relativa, dal 4,5% al 3,0% per l’assoluta) è in parte effetto della crisi. Molte imprese individuali, infatti, hanno chiuso durante il 2009 contribuendo a far diminuire la platea di questi lavoratori e lasciando sopravvivere quelli con minori difficoltà economiche.
Assai preoccupante, infine, è l’aumento dell’intensità della povertà assoluta. L’intensità della povertà è una misura di quanto, in percentuale, la spesa media delle famiglie definite povere è al di sotto della soglia di povertà. Per le famiglie in povertà assoluta che sono già, quindi, in una situazione di sofferenza ancora maggiore dei poveri relativi, l’intensità della povertà è passata dal 17,3% al 18,8%. In altre parole, se il numero di famiglie assolutamente povere è rimasto pressoché identico, le loro condizioni medie sono peggiorate.Anche questo dato trova conferma nel già citato rapporto Ocse sulle disuguaglianze che rileva come il nostro paese sia passato da livelli di disuguaglianza vicini alla media Ocse vent’anni fa, a livelli ben superiori oggi (i poveri sono sempre più poveri ed i ricchi sempre più ricchi). Siamo infatti il 6° paese sui 30 censiti per livello delle disuguaglianze tra ricchi e poveri. La disuguaglianza tra ricchi e poveri, in Italia, è cresciuta infatti del 33% rispetto alla metà degli anni ’80 mostrando l’inefficacia delle misure di contrasto alla povertà che pure l’Ocse rileva siano state implementate nell’ultimo ventennio.
Le brevi considerazioni svolte portano ad individuare due emergenze nel sistema di protezione sociale che hanno priorità rispetto alle altre: si tratta della totale esposizione delle giovani generazioni ai rischi del ciclo economico e ad altri rischi, dovuta alla parzialità del nostro sistema di ammortizzatori (si pensi ai criteri restrittivi per l’accesso alla cassa integrazione e alla mancanza di una indennità di disoccupazione universalistica) e della mancanza di una misura specifica di contrasto alla povertà (sul modello del reddito di ultima istanza).Sono emergenze assolute perché colpiscono segmenti della popolazione che, invece, per ragioni diverse, meriterebbero un’attenzione prioritaria da parte del sistema di protezione sociale. Le giovani generazioni vanno protette per evitare la trasmissione intergenerazionale della povertà e perché la società nel suo complesso non può privarsi del contributo di lavoratori e cittadini nella fascia centrale della propria esistenza, più produttiva, più fertile e più adattabile al cambiamento.Le persone in condizione di indigenza vanno protette non solo perché una democrazia non può tollerare l’esistenza di cittadini che non sono in grado di provvedere nemmeno alle proprie esigenze vitali, quindi cittadini non liberi, ma anche per prevenire i costi futuri associati alla povertà attuale.Non può valere come alibi – per procrastinare ulteriormente una riforma del nostro sistema di protezione sociale che vada nella direzione di prestazioni tendenzialmente universalistiche (non legate alla collocazione della persona nel contesto lavorativo) – la considerazione che tale riforma comporterebbe, nell’immediato, dei costi. I costi futuri, legati all’estendersi della povertà sui giovani e all’intensificarsi della povertà tra gli indigenti, sarebbero infatti ancora più onerosi. A questo va aggiunto che, in un momento di crisi come quello attuale, misure di sostegno ai redditi ed alla domanda interna avrebbero un effetto anticiclico, come ben argomentato nella “Lettera degli economisti” pubblicata su questa rivista il 15 Giugno 2010.La manovra economica correttiva che sarà approvata definitivamente entro l’estate, al contrario, è destinata a inasprire la condizione di difficoltà dei già indigenti (attraverso ulteriori tagli alle prestazioni sociali, per chi ne può godere) e dei giovani precari (va in questa direzione il taglio del 50% dei precari nelle pubbliche amministrazioni, nelle università e negli enti di ricerca) che non potranno godere di alcuna forma di ammortizzatore sociale. È veramente difficile, infatti, pensare in termini di “risparmi” alla mancata protezione dei giovani dal rischio disoccupazione e dal rischio povertà, quando questo mancato investimento sulle giovani generazioni peserà come un “costo” sulla crescita futura.
*Università di Milano e segreteria Flc-Cgil Milano