Il microcredito è ritenuto nella letteratura strumento di riduzione della disoccupazione, di sostegno al self-employment e di stimolo alla nascita di microimprese (Murdoch 1999, Murdoch e Shreiner 2001, Armendáriz de Aghion e Morduch 2004). Questa posizione è condivisa dall’Unione Europea che ritiene che la micro finanza possa giocare un ruolo centrale nella realizzazione della strategia di Lisbona, che coniuga l’obiettivo dell’occupazione con l’inclusione sociale nel contesto generale della “flexicurity” (European Coomission 2007 p.3).
Il tema del microcredito affonda le sue radici nella letteratura sulle asimmetrie informative (Akerlof 1970) e sui “fallimenti del mercato” estesa al mercato del credito (Stiglitz e Weiss 1981) a partire dalla quale si è sviluppato un ricco filone di ricerca sull’esclusione dalla possibilità di ottenere finanziamenti come ostacolo alla rimozione della povertà[1].
Questo processo di ricerca ha subito una notevole accelerazione con la creazione della Grameen Bank da parte di colui che avrebbe successivamente ricevuto il Premio Nobel per la pace – Muhammed Yunus. Egli ha il grande merito di aver reso noto ad un pubblico molto ampio le sue iniziative di microfinanza proponendole come strumenti per la promozione dello sviluppo nei paesi poveri. L’attività di questa banca – che si fonda su tradizionali meccanismi di mercato, sul controllo diretto del percorso di restituzione del prestito da parte del debitore e su incentivi di tipo altruistico – è tesa alla concessione di piccoli prestiti a persone tradizionalmente ritenute al di fuori del circuito economico. Questa iniziativa è stata ritenuta convincente ed ha avuto una tale risonanza sul piano internazionale da diffondersi in breve tempo in tutto il mondo. In particolare i risultati maggiori si sono ottenuti nel Sud-est asiatico, in America latina ed in Africa.
La tabella riporta la dimensione del fenomeno per area geografica. l’Asia rappresenta l’area geografica dove il fenomeno ha avuto maggiore diffusione. Sin dalla fine degli anni ’90, è’ noto che in Bangladesh e in Indonesia il microcredito non solo è stato strumento di sostegno alla povertà, ma ha ricoperto anche un ruolo di ammortizzatore sociale nel periodo della crisi finanziaria (Marconi e Mosley, 2006).
A grande distanza, per quantità di progetti e ammontare di risorse, seguono l’Africa sub-sahariana, l’America Latina e l’area relativa ai paesi arabi (Medio Oriente e Nord Africa – MENA countries) con una posizione del tutto marginale. Di particolare rilievo però sono alcune esperienze dell’America Latina come quella della Bolivia dove prima il Bancosol e poi anche altre istituzioni finanziarie si sono dedicate con grande successo al microcredito (Navajas, Conning e Gonzales-Vega 2003).
I progetti di microcredito nelle economie avanzate rappresentano una quota del tutto irrisoria – mai oltre il 6% e spesso al di sotto dell’1% (vedi ultima riga della tabella 1). Anche nei paesi dell’Europa dell’Est il fenomeno della microfinanza è assai poco diffuso nonostante la riconversione dalle economie socialiste all’economia di mercato abbia creato un consistente numero di individui che vivono al di sotto della soglia di povertà.
La diversa diffusione nel mondo di esperienze di micro finanza porta ad interrogarsi sulle ragioni di una distribuzione così diseguale. Perché la finanza per i poveri possa essere una esperienza di successo devono verificarsi alcune condizioni:
1. la possibilità di destinare il prestito ad attività redditizie (reddito atteso)
2. l’impossibilità di ottenere retribuzioni alternative dignitose (salario di riserva).
Queste due condizioni risultano tanto più vere quanto più l’economia è arretrata e ha bassi livelli di reddito e di capitale pro-capite Solo una volta che esse si siano verificate e siano state poste le premesse per una domanda adeguata, gli economisti possono interrogarsi su come rendere il credito accessibile a tutti e la finanza per i poveri profittevole per il sistema bancario.
Morduch e Schreiner – economisti accesi sostenitori del microcredito e dell’estensione delle esperienze nei paesi in via di sviluppo – sottolineano che perché possa essere realizzabile in una economia avanzata come gli Stati Uniti deve essere accompagnato da efficaci programmi di sostegno e di controllo del percorso di investimento, e da strategie volte al contenimento dei costi delle aziende di credito (Morduch e Schreiner 2001). Potremo dire da un percorso che renda l’attività redditizia all’interno dei tradizionali canoni di mercato. Ma subordinare l’efficienza di mercato ai programmi di intervento sembra rappresentare una contraddizione.
A ben osservare cosa accade nei paesi avanzati, è possibile notare che la pratica di concedere prestiti di importo ridotto esiste da tempo e svolge le funzioni di strumento per colmare le carenze di liquidità e di distribuzione dei consumi nel tempo. Il sistema bancario e finanziario, infatti, concede credito ai privati – individui e imprese – per le necessità personali o per finanziare progetti; sostiene poi i consumi correnti, attraverso la rateizzazione, a chi dimostri di essere capace di produrre reddito e di non avere una storia passata di insolvenza. Diversa è la questione relativa all’altezza dei tassi d’interesse e all’incapacità del costo del finanziamento di incorporare tutte le informazioni del debitore e del creditore (adverse selection e moral hazard), questione che potrebbe essere stemperata attraverso una maggiore regolamentazione e all’utilizzo di strategie alternative di politica monetaria, ma che è necessario porsi in seconda battuta[2].
La domanda di strumenti finanziari da parte delle persone indigenti, potrebbe infatti non esistere in una economia sviluppata: essa infatti è funzione diretta del reddito futuro atteso dell’attività alla quale è destinata e funzione inversa del salario ottenibile in alternativa: in una parola funzione inversa della povertà di un sistema economico nel suo complesso. La finanza per i poveri trova perciò tanto più spazio e sarà tanto più redditizia quanto più un paese è in una condizione di sottosviluppo. In questo caso il microcredito potrebbe rappresentare una “terza via” perché aggiunge un nuovo elemento di propulsione per la crescita, senza esasperare i conflitti tipici dell’economia di mercato né ricorrere a pratiche vicine all’assistenzialismo.
Nel caso delle economie sviluppate, invece, per quanto possano trovarsi in fase di recessione, l’impossibilità di ottenere redditi adeguati rende il microcredito in prevalenza strumento di solidarietà, perché va a colmare il vuoto lasciato dall’assenza di ammortizzatori sociali, dalla riduzione del welfare state e più in generale dalla progressiva riduzione dello Stato nell’attività economica[3].
Il microcredito nelle economie avanzate deve essere perciò ricondotto, se pur con le sue peculiarità, all’ambito della letteratura sul non-profit alla quale bisogna far riferimento per l’approfondimento della conoscenza dei limiti e delle opportunità (Zamagni 1998).