Con la manovra economica descritta nel Documento di Economia e Finanza (DEF), il governo riconosce che il pareggio di bilancio strutturale (cioè al netto del ciclo economico) non potrà essere conseguito il prossimo anno. Prevede dunque di posticipare di un anno, al 2016, il raggiungimento dell’obiettivo[1]. Perciò, il ministro Padoan ha scritto alla Commissione Europea e il Parlamento ha dato il suo placet, il tutto secondo quanto previsto dai trattati europei e dal principio del pareggio di bilancio introdotto di recente nella nostra Costituzione. La domanda è: saremo in grado di raggiungere l’obiettivo tra due anni?
Per farcene una idea, forse è bene ricordare che quando negli USA, nel 2011, la destra repubblicana spinse per introdurre nella Costituzione il principio del pareggio di bilancio, cinque premi Nobel e altri autorevoli economisti scrissero a Obama. Spiegarono che “inserire un tetto alla spesa pubblica peggiorerebbe le cose” e “chiudere il bilancio in pareggio aggraverebbe le recessioni”. Il pareggio di bilancio è dunque una “pericolosa camicia di forza” che “impedirebbe al governo di ricorrere al credito” quando ce n’è bisogno e “favorirebbe dubbie manovre finanziarie, quali la vendita di beni pubblici”. Obama ascoltò l’allarme dei Nobel e si guardò bene dall’inserire il pareggio in Costituzione.
In Italia, invece, anche in omaggio al famigerato Fiscal Compact, abbiamo zelantemente recepito il principio e inseguiamo da anni con pervicace coerenza un fantomatico obiettivo di “sana finanza pubblica”, sforzandoci di comprimere la spesa statale e segnando il record europeo degli eccessi delle entrate fiscali sulla spesa al netto degli interessi. Abbiamo così ridotto la spesa pubblica di oltre sei punti di Pil negli ultimi venti anni, portando la spesa complessiva per cittadino, in termini reali, ampiamente al di sotto della media dell’eurozona[2]. E ciò con risultati desolanti, soprattutto in termini di bassa domanda aggregata di beni e servizi, bassa produzione e alta disoccupazione; ma anche per gli stessi obiettivi di finanza pubblica che i diversi governi si erano posti: in pratica, più abbiamo applicato il principio del pareggio e più gli obiettivi ci sono scappati di mano.
Nel settembre 2011 la coppia Berlusconi-Tremonti, incalzata dall’Europa, aveva assicurato che, con le manovre impostate, il pareggio strutturale si sarebbe conseguito due anni dopo, nel 2013. Cosa che naturalmente non è avvenuta. Del resto, anche le loro previsioni per il 2012 risultarono erronee: avevano previsto una riduzione del Pil di appena lo 0,6% ed invece cadde di ben 2,4 punti, con il debito pubblico che schizzò quasi 9 punti più in alto di quanto avevano annunciato.
Con il governo Monti da questo punto di vista le cose non mutarono. Nel DEF 2012, con l’aggiornamento autunnale e addirittura con il DEF 2013 di aprile, Monti e Grilli si incaponirono nel sottolineare l’effetto taumaturgico della manovra Salva-Italia e in generale dei “compiti a casa”, prevedendo costantemente di raggiungere il pareggio strutturale nel 2013. Anche questa volta un nulla di fatto. Anzi, il Pil precipitò ancora di 1,9 punti, mentre il governo nella primavera dell’anno precedente aveva addirittura previsto una crescita di mezzo punto. Quanto al debito pubblico, crebbe di ben undici punti in più rispetto alla previsione.
Con la Nota di Aggiornamento di Letta e Saccomanni del settembre scorso la previsione di pareggio strutturale è stata ancora spostata nel futuro, questa volta al 2015, e le loro previsioni sulla crescita del Pil nel 2014 (+1%) e sul debito (132,9%), apparse subito ottimistiche, sono già state smentite dallo stesso governo Renzi che ha provveduto a spostare ancora una volta in avanti l’obiettivo di pareggio strutturale, al 2016.
I motivi di questi clamorosi fallimenti previsionali – ma anche di quelli di altri governi europei e di importanti istituzioni internazionali – sono presto detti. Si è costantemente sottovalutato il fatto che insistere con tagli della spesa determina, soprattutto in fasi recessive, una violenta caduta della domanda aggregata di merci e servizi. E se cala la domanda le imprese riducono i livelli di produzione, con il risultato che l’occupazione, il reddito e le stesse entrate fiscali si contraggono. Finché continueremo a muoverci in questa assurda direzione, il risanamento delle finanze pubbliche sarà po’ come il miraggio per chi si è perso nel deserto: una splendida oasi che appare nitida, verso cui ci si muove, ma che continua ad allontanarsi.
*Una prima stesura di questo articolo è apparsa su L’Unità del 18 aprile 2014.