Il Ministro Brunetta ha recentemente definito il progetto di partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa (o profit sharing) – proposto dal Ministro Tremonti – una “utopia possibile”. La definizione appare alquanto esagerata dal momento che esperienze di questo tipo sono già state realizzate, alcune sono già in atto, ed è difficile vedervi qualcosa di utopico. La proposta del Governo consiste nella detassazione del 10% a beneficio di quelle imprese che incentivino la partecipazione dei lavoratori agli obiettivi dell’impresa. Il salario verrebbe scisso in due componenti: una parte fissa e una variabile, quest’ultima in funzione dei profitti aziendali, così che il salario può aumentare – ferma restando la sua quota fissa – solo se i profitti aumentano. La ratio che ne è a fondamento consiste in questo: poiché si ritiene che, in regime di compartecipazione, il lavoratore sia maggiormente interessato alla performance dell’impresa, vi è da attendersi che sia più produttivo. Sul piano giuridico, la fonte di riferimento è la nuova versione dell’articolo 2349 del Codice civile, che dispone che si possa convertire parte degli utili in azioni, da assegnare ai dipendenti sulla base della loro adesione ai programmi aziendali di compartecipazione.
Va chiarito preliminarmente che questa proposta incide, nella migliore delle ipotesi, su una sola determinante della produttività del lavoro, ovvero la motivazione individuale a erogare elevato rendimento; fattore, questo, che, almeno nel caso italiano, è quello meno rilevante per la crescita della produttività del lavoro[1]. D’altra parte, ciò è testimoniato dal fatto che il progetto governativo tiene conto del fatto che, di norma, non vi è convenienza, da parte delle imprese, a rendere i lavoratori compartecipi agli esiti dell’attività d’impresa e che, dunque, occorre fornire incentivi. Alla proposta Brunetta – Tremonti è possibili rivolgere due ordini di critiche.
1) La produttività del lavoro dipende principalmente dallo stock di capitale fisso a disposizione dei lavoratori e dalle loro conoscenze generali e tecniche. Poiché la dotazione di capitale fisso è maggiore nelle imprese di grandi dimensioni, lì è più elevata la produttività del lavoro. In tal senso, uno dei problemi dell’economia italiana – per quanto attiene alla modesta dinamica salariale e al disavanzo dei conti con l’estero – consiste nella bassa produttività del lavoro che, a sua volta, dipende dal ‘nanismo’ imprenditoriale caratteristico del nostro assetto produttivo. La compartecipazione agli utili non agisce in alcun modo su questo aspetto e, dunque, non vi è da attendersi dalla sua eventuale attuazione significativi recuperi di produttività.
2) L’andamento degli utili aziendali è in larghissima misura indipendente dalle scelte dei lavoratori. Di norma, e a titolo esemplificativo, le operazioni di acquisizione e fusione accrescono i profitti, ma ciò è unicamente il risultato di scelte del management che il lavoratore può solo subire, in questo caso favorevolmente. Così come, per converso, scelte sbagliate del management riducono i profitti, riducono conseguentemente la parte variabile del salario legata al profit sharing e, di norma, non penalizzano i dirigenti d’impresa. Questa asimmetria (i lavoratori perdono per scelte sbagliate dei manager, i manager no) è spiegabile alla luce della constatazione stando alla quale, per effetto di un’elevata propensione al rischio, della difficoltà di controllare il loro operato e dell’inerzia caratteristica delle organizzazioni, i consigli di amministrazione delle società per azioni tendono a non licenziare i propri dirigenti[2]. Il profit sharing costituirebbe, dunque, un reale vantaggio per i lavoratori solo a condizione di essere associato alla cogestione e, dunque, a un effettivo potere decisionale dei lavoratori in ordine alle strategie aziendali. Ma, con ogni evidenza, non è questo il progetto governativo, e non rientra affatto negli obiettivi delle imprese la cessione di potere ai propri dipendenti, che configurerebbe la transizione a un assetto istituzionale non capitalistico, di tipo cooperativista[3].
In considerazione di questi rilievi, è opportuno chiedersi per quale ragione questa proposta (che pure è già tecnicamente fattibile) viene fatta in regime di crisi. La risposta più ragionevole è che, in fasi recessive, la compartecipazione ha l’effetto di ridurre i salari, dal momento che i profitti si riducono. Può essere sufficiente ricordare che, secondo uno studio della banca Citigroup, nella UE i margini operativi lordi delle imprese si sono ridotti dell’11% nel periodo tra l’ultimo trimestre 2008 e il primo trimestre 2009 rispetto all’anno precedente. Depurando il dato dal deprezzamento del capitale, e da interessi e rendite sulla proprietà, i redditi imprenditoriali netti risultano scesi del 23% nel medesimo arco temporale. In tal senso, e anche in considerazione degli sgravi fiscali programmati a beneficio delle imprese, il provvedimento costituisce un aiuto surrettizio alle nostre imprese, e avrà effetti di risparmio sui costi aziendali tanto maggiori quanto più ampia è la platea di lavoratori che accetteranno di assumere rischi in contesti sfavorevoli. Vi è da attendersi, a riguardo, che la scelta dei lavoratori – di certo poco informati in ordine all’andamento della domanda di beni e servizi e, ancor più, dell’andamento del mercato azionario – sarà ampiamente condizionata dalla capacità di persuasione dei media e, se conveniente, dei datori di lavoro. Se, poi, si considera che la parte variabile del salario sarà legata agli utili ottenuti mediante attività speculative (e, dunque, la ricerca di rendimenti elevati nei mercati azionari), la proposta assume connotati di palese asimmetria contrattuale a danno dei lavoratori, dal momento che i lavoratori non avranno potere di decisione in ordine all’allocazione di queste risorse e, anche se lo avessero, non sarebbero adeguatamente informati sulle dinamiche di un mercato – quello dei titoli – già di per sé estremamente volatile e caratterizzato da massima incertezza[4]. Vale poco il richiamo all’esperienza tedesca, dove il modello del profit sharing è stato adottato da diversi anni, sia perché la struttura produttiva tedesca – a differenza della nostra – è caratterizzata da imprese di grandi dimensioni (il cui rischio di perdite, o addirittura di fallimento, è minore rispetto a un’economia con prevalenza di microimprese), sia – e soprattutto – perché in Germania il modello della compartecipazione è stato introdotto in fasi del ciclo economico ben diverse da quella in corso, e caratterizzate da crescita economica sostenuta e contestuale crescita dei profitti[5].