I sommovimenti sociali che hanno scosso il Nord Africa sono stati attribuiti dai media occidentali a cause interne. Le masse arabe si rivolterebbero contro il dispotismo, aspirando ovviamente al modello occidentale di democrazia. In realtà, se spingiamo la nostra analisi al di là della semplice realtà fenomenica ci rendiamo conto che quanto accaduto è il riflesso della crisi e della globalizzazione, entrambe fenomeni con epicentro o guidati proprio dall’Occidente.
Gli Usa hanno scelto di risolvere la crisi, di cui sono stati origine nel 2007 con lo scoppio della bolla dei subprime, portando i tassi d’interesse del denaro vicini allo zero e immettendo una massa enorme di denaro nell’economia mediante il cosiddetto “quantitative easing”. Questo consiste nell’acquisto di titoli del Tesoro per 600 miliardi di dollari da parte della Banca centrale Usa, cui è stata aggiunta la proroga, per 800 miliardi di dollari, degli sgravi fiscali dell’epoca Bush. In questo modo, lo Stato Usa ha rilanciato il Pil (nel 4° trimestre 2010 al 3,2%) e i profitti delle imprese (+35%) e delle borse, specie di Wall street, che non chiudeva in rialzo per nove settimane di fila dal ’95.[1] Si tratta però, come già avvenuto con Bush a seguito della crisi del 2001, di una crescita drogata che non risolve e aggrava la crisi, lasciando inalterata la forte disoccupazione (10%).[2]
Ma gli effetti del “quantitative easing” vanno al di là degli Usa. L’effetto più importante della manovra del governo Obama è la diffusione a livello mondiale dell’inflazione. Bisogna, però, osservare che la politica espansiva non produce necessariamente inflazione, come pretende la teoria monetarista. Infatti, negli Usa e nella Ue i focolai inflazionistici sono o assenti o limitati, anche perché la domanda è fiacca visto che la ripresa è modesta o assente e comunque non ha riassorbito la disoccupazione. L’inflazione che affligge alcune aree mondiali è il prodotto della relazione tra aumento della liquidità e mercati finanziari internazionali.[3]
Infatti, l’enorme liquidità così creata trova un impiego nelle attività speculative di borsa, che garantiscono profitti maggiori, anziché nell’attività produttiva. Questo anche perché l’industria manifatturiera Usa rappresenta una quota del Pil sempre meno importante e perché non ha neanche lontanamente risolto la forte sovrapproduzione che è alla base dello scoppio della crisi. In particolare, la liquidità in eccesso si è diretta verso il mercato speculativo dei contratti futures sulle materie prime, di cui si è evitata accuratamente la regolamentazione promessa all’epoca dello scoppio della crisi.
La speculazione sui contratti futures, come avvenuto già nel 2008, ha innescato un aumento esponenziale di tutte le materie prime, delle quali molte, specie quelle cerealicole, hanno il loro centro di scambio mondiale proprio al Chicago Mercantile Exchange, che è la roccaforte della finanza Usa e la borsa dove si scambiano più opzioni e futures. Tra gennaio 2010 e gennaio 2011, le materie prime energetiche sono aumentate del 20,4%, i metalli del 28,3%, e le materie prime alimentari del 32%. I maggiori aumenti sono stati registrati dal grano (62%) e dal frumento (58,7%). In particolare, i prezzi di mercato del grano sono passati da 177,5 dollari a tonnellata del 2° trimestre 2010 ai 326 dollari del gennaio 2011.[4] Il mercato del grano, inoltre, è stato influenzato dalle pessime condizioni atmosferiche e dai cattivi raccolti di alcuni paesi esportatori, come Russia e Australia, nonché dall’aumento della domanda della Cina, nella quale i cambiamenti climatici hanno ridotto la disponibilità d’acqua, e dell’India, che sconta una cronica scarsa produttività agricola.[5] Ad ogni modo, la volatilità dei mercati, determinata dall’andamento altalenante della produzione, è la condizione migliore per chi specula con i futures. Del resto, l’effetto della speculazione riguarda tutte le commodity. Persino il caffè, che non c’entra nulla con l’Australia e la Russia, è cresciuto ai massimi da tredici anni, con un incremento annuo del 103,5%.[6] L’aumento delle materie prime alimentari ha avuto un impatto maggiore nei paesi più poveri, dove una quota molto maggiore del reddito viene spesa in alimenti. Mentre in Italia la spesa alimentare ammonta al 17,5% dei consumi, in Egitto raggiunge il 48,1%.[7] La ragione per la quale gli effetti della speculazione si sono sentiti di più proprio nel Nord Africa e in Medio Oriente risiede nel fatto che tali aree sono quelle maggiormente dipendenti dai mercati internazionali per l’approvvigionamento alimentare.[8] Infatti, il Nord Africa è il principale importatore mondiale di grano (21,4 milioni di tonnellate), seguito dal Medio Oriente (18,72 tonnellate)[9]. In particolare, L’Egitto, ormai privo dell’acqua necessaria alla coltivazione del grano e verso il quale la Russia ha recentemente interrotto i rifornimenti, è il primo importatore mondiale, e l’Algeria, che prima di essere convertita alla monoproduzione energetica era un esportatore netto di cerali, il secondo. Di conseguenza, in queste aree i prezzi dei generi alimentari sono incrementati vertiginosamente (del 30% in un mese in Algeria).
Bisogna considerare, inoltre, che in Nord Africa l’aumento dei prezzi alimentari è stato il detonatore che ha innescato l’esplosione in una situazione già gravida di contraddizioni. A questo proposito dobbiamo farci una domanda: perché le rivolte avvengono nel Nord Africa, che, secondo l’Ocse, ha fatto registrare negli ultimi anni uno dei tassi di crescita maggiori del mondo? Proprio l’Egitto, ad esempio, è cresciuto nel 2010 del 5,4%. Il vero problema di questi paesi[10] non è il mancato sviluppo, bensì il modello di sviluppo che vi si è affermato. Quello del Nord Africa, a differenza di altre aree emergenti, è un boom economico senza diffusione del benessere. E se la crescita in Nord Africa non crea ricchezza è perché è una crescita dipendente dagli interessi europei e statunitensi, in presenza di compagini statali deboli e subalterne. I benefici della crescita sono andati solo alle imprese e alle banche straniere e a ristrettissime élite locali, la cui funzione è stata quella di “mediatori” dei capitali occidentali, in prima fila francesi e italiani. Alla base c’è, dunque, il modo in cui si sono attuati i processi di internazionalizzazione dell’economia, fondati sulle delocalizzazioni alla ricerca del massimo profitto grazie a bassi salari e mancanza di diritti. Alla fine, però, la contraddizione tra la crescita e la realtà di povertà ha creato il terreno favorevole alla rivolta, che ha avuto prevalenti contenuti sociali ed economici, come prova l’esplosione di scioperi e rivendicazioni salariali in Egitto.[11]
Dunque, il vero problema non sta tanto nel “dispotismo”, ma nell’esistenza di uno specifico sistema di rapporti economici ineguali a livello internazionale, all’interno del quale hanno collocazione funzionale i “despoti”. Per quanto riguarda il Nord Africa, la subalternità è accresciuta dalla dipendenza dai principali esportatori di cereali, Usa, Canada, e Francia.[12] Nel 2010 l’Egitto è stata la quinta destinazione dell’export Usa di grano e la quarta di frumento, rispettivamente con incrementi del 129% e del 59% rispetto al 2009.[13]
Ad ogni modo, l’aspetto più rilevante, che emerge ancora una volta anche nei fatti del Nord Africa, è la centralità del ruolo dei mercati finanziari. Grazie al controllo del mercato finanziario mondiale e al possesso del dollaro, la valuta di riserva e di scambio internazionale, quello che è tutt’ora, nonostante il suo declino e la crisi, il centro del sistema economico mondiale, ovvero gli Usa, è capace di generare effetti negativi a livello mondiale. Stampando semplicemente banconote, come avvenuto con il “quantitative easing”, gli Usa portano instabilità nell’economia mondiale, esportando inflazione e trasferendo in tal modo la crisi su altre aree economiche. Non si tratta di una novità, visto che, come ha avuto modo di far notare l’economista Stiglitz, gli Usa avevano fatto lo stesso già nel ’97-98, quando, con il contributo del Fondo monetario internazionale, innescarono le crisi finanziarie dei Paesi del Sud Est asiatico e della Russia. [14] I sommovimenti del Nord Africa sono, in questo senso, l’ultimo episodio della crisi mondiale che, ben lontana dall’essere risolta, dal centro si estende a cerchi concentrici verso le aree periferiche del sistema mondiale.
* Economista, consultente Filmcams-CGIL.