Varie analisi elaborate da grandi istituzioni internazionali (OCSE, ILO, FMI) e un’ampia letteratura economica hanno messo in luce il verificarsi in diversi paesi di un fenomeno importante: la caduta della quota dei redditi da lavoro sul Pil nell’arco di circa un trentennio. Molti si sono soffermati di recente su questa caduta, non ultima la “Lettera degli economisti” sottoscritta da oltre 250 studiosi e pubblicata nel giugno scorso. L’economista Giulio Zanella ha tuttavia contestato l’effettivo verificarsi di questo fenomeno. In un recente articolo egli è infatti giunto alle seguenti conclusioni: 1) che le quote distributive non sono variate molto nella maggior parte dei grandi paesi industrializzati; 2) che dove la quota dei redditi da lavoro è diminuita, in particolare in Italia, ciò è avvenuto non a beneficio della quota dei profitti e degli altri redditi non da lavoro ma a beneficio esclusivo di quella che viene chiamata “quota del governo”. [1]
Un motivo per cui vale la pena soffermarsi sull’articolo in questione è che l’autore del medesimo non apre la consueta controversia circa l’interpretazione dei fatti, ma solleva un problema preliminare che in un certo senso riguarda i fatti stessi, o più precisamente i dati di partenza delle analisi. La questione è rilevante e merita quindi un approfondimento. A questo scopo occorre prima di tutto chiarire quale sia il tipo di dati a cui ci si riferisce in questa discussione. Vi sono due modi principali in cui gli economisti analizzano la distribuzione del reddito. Uno è quello di guardare alle disuguaglianze tra i redditi delle persone o delle famiglie quali essi risultano da indagini statistiche appositamente condotte su campioni rappresentativi (come quella condotta, ad esempio, dalla Banca d’Italia), oppure, in altri casi, traendo informazioni dalle dichiarazioni dei redditi. C’è poi un altro modo, che discutiamo qui, il quale consiste nel guardare come l’intero prodotto interno di un paese si divide tra redditi da lavoro (considerati al lordo delle imposte dirette e di tutti gli oneri contributivi sia a carico del lavoratore che del datore di lavoro), e tutti gli altri redditi (profitti, rendite e altre forme di reddito non da lavoro). Questi ultimi dati sono tratti dalle statistiche relative ai conti economici nazionali prodotte, sulla base di definizioni e criteri uniformi, dagli istituti centrali di statistica dei vari paesi. Veniamo ora a discutere le due conclusioni dell’articolo.
Andamento delle quote distributive e incidenza del lavoro autonomo
La conclusione (1) viene raggiunta guardando la quota sul Pil dei soli redditi da lavoro dipendente. Ora, a parità di Pil e di rapporto tra salario e prodotto per lavoratore, la quota del solo lavoro dipendente riflette anche la proporzione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo nell’economia: ad esempio, se il lavoro autonomo ha un peso importante nella produzione, la quota dei redditi da lavoro dipendente risulterà più bassa che nel caso in cui la produzione sia realizzata, poniamo, da solo lavoro dipendente. L’autore dell’articolo segnala questo problema ma non ne tiene poi conto quando analizza l’andamento delle quote nei vari paesi. Ma tra gli anni 70 e oggi, come mostrato da un grafico pubblicato nell’articolo che stiamo discutendo, il rapporto tra lavoro dipendente e lavoro autonomo è aumentato, talvolta molto significativamente, in vari paesi (principalmente in Giappone e Francia ma anche in Italia e Usa), e questo come abbiamo visto tende a far aumentare, a parità di altre circostanze, la quota dei redditi da solo lavoro dipendente sul Pil.
Tuttavia, a differenza che nell’articolo che stiamo esaminando, nella letteratura economica e nelle statistiche nazionali ed internazionali la stima che viene fornita delle quote distributive sul Pil è “corretta” per tenere conto del lavoro autonomo ed evitare che la sua minore o maggiore incidenza crei una distorsione quando si confrontano diversi paesi o diversi periodi in uno stesso paese. Questo aggiustamento per tenere conto del lavoro autonomo viene fatto nel seguente modo: si attribuisce ad ogni lavoratore autonomo il reddito medio da lavoro dipendente comprensivo di imposte e contributi e si aggiungono i redditi da lavoro autonomo così calcolati a quelli complessivi da lavoro dipendente. Si ottiene così una quota dei redditi da lavoro che comprende anche i redditi attribuiti al lavoro autonomo, mentre rientrano tra i profitti e altri redditi non da lavoro solo quella parte dei redditi individuali dei lavoratori autonomi (professionisti, commercianti, imprenditori ecc) che superano il reddito medio da lavoro dipendente.[2] Il vantaggio è che la quota dei redditi da lavoro così corretta dipende solo dalla distribuzione del reddito, cioè dal rapporto tra salario e prodotto per lavoratore e non dipende più dall’incidenza del lavoro autonomo sull’occupazione totale. Vedremo tra breve quale sia l’andamento delle quote distributive “corrette” nel modo appena descritto. Prima però occorre un chiarimento sulla “quota del governo”.
La “quota del governo” piglia tutto?
Esaminiamo ora la conclusione (2) dell’autore dell’articolo, secondo cui quella che viene chiamata “quota del governo” avrebbe assorbito l’intera diminuzione della quota dei redditi da lavoro in Italia, mentre i redditi da capitale sarebbero rimasti invariati. Tale “quota del governo” consiste nelle imposte sulla produzione e sulle importazioni (in Italia l’IVA) al netto dei sussidi alla produzione (cioè dei sussidi alle imprese). Queste imposte contribuiscono a determinare il prezzo di vendita dei prodotti e nella contabilità nazionale rappresentano la differenza tra il Pil stimato al costo dei fattori e il Pil ai prezzi di mercato; cioè per definizione si ha:
Pil al costo dei fattori + (imposte indirette – sussidi alla produzione) ≡ Pil ai prezzi di mercato
Ora, quale che sia l’andamento di tali imposte,[3] noi possiamo direttamente analizzare la distribuzione del Pil misurato al costo dei fattori, cioè considerato già al netto di quelle imposte, anche in questo caso seguendo la prassi normalmente adottata nella letteratura economica e nelle indagini statistiche su questi temi. La Figura 1 qui sotto riporta l’andamento della quota dei redditi da lavoro in vari paesi, corretta per tenere conto del lavoro autonomo, e presa come percentuale del Pil al costo dei fattori, cioè al netto della “quota del governo”. Si vede immediatamente che in Italia la quota dei redditi da lavoro è diminuita di circa 10 punti percentuali di Pil, e che specularmente è aumentata la quota dei profitti e degli altri redditi non da lavoro presi al netto delle imposte indirette, contrariamente a quanto sostenuto nell’articolo che stiamo discutendo.
L’andamento delle quote distributive nei principali paesi industrializzati
La figura 1 mostra che la quota dei redditi da lavoro corretta per il lavoro autonomo e presa sul reddito al costo dei fattori nei principali paesi industrializzati (gli stessi considerati nell’articolo che stiamo discutendo) è diminuita tra i cinque e i dieci punti di Pil rispetto agli anni 70. La figura mostra inoltre che in Italia, Francia, Giappone, Germania e USA i redditi da lavoro in percentuale del Pil sono anche al di sotto del livello al quale si trovavano negli anni ‘60. In Italia negli ultimi dieci anni si è verificato un moderato aumento della quota dei redditi da lavoro (dovuto al declino del prodotto pro capite, con salari medi stabili), che tuttavia lascia tale quota a valori molto inferiori rispetto al passato. Questo naturalmente significa anche che la quota dei redditi da capitale presi al netto delle imposte indirette, che è il complemento a 100 della quota del lavoro, è aumentata significativamente.[4] Il diverso risultato rispetto all’articolo che stiamo discutendo dipende dal diverso metodo di calcolo, che applica la correzione per il lavoro autonomo e fa riferimento al PIL al costo dei fattori.[5]
In definitiva, le conclusioni (1) e (2) dell’articolo in questione non trovano adeguati riscontri e debbono quindi essere respinte.