I commenti critici alle recenti dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, in ordine alla scarsa redditività degli stabilimenti Fiat in Italia e alla conseguente necessità delle delocalizzazioni, si sono – per lo più – concentrati sulle capacità gestionali del management dell’azienda e sulla censurabilità di quelle dichiarazioni alla luce dei cospicui finanziamenti pubblici ricevuti in passato da Fiat.
Si tratta di rilievi condivisibili che, tuttavia, sembrano non tener conto di una considerazione che prescinde dal singolo caso e che può porsi nei seguenti termini: l’accelerazione dei processi di delocalizzazione industriale conferma che il capitalismo contemporaneo è sempre più caratterizzato dalla piena sovranità della grande impresa. Una piena sovranità che si manifesta anche mediante il potere che essa esercita sulle scelte di politica economica e, in particolare, di politica del lavoro[1]. Sono in molti a ritenere che gli assetti istituzionali e decisionali ereditati dal Novecento siano oggi inadeguati e che le norme giuridiche debbano adeguarsi alle ‘nuove’ esigenze di competizione delle imprese nell’economia globale. A ben vedere, si tratta di una opzione ideologica; d’altronde, non sempre ciò che è nuovo è necessariamente meglio di ciò che lo ha preceduto[2].
Schematicamente, le scelte di delocalizzazione vengono ricondotte a due ordini di fattori.
1) Si ritiene che le delocalizzazioni dipendano dall’eccessiva regolamentazione dei mercati, dall’elevato onere burocratico, dall’elevata imposizione fiscale e, più in generale, dalla peggiore ‘qualità delle istituzioni’ del Paese dal quale le imprese migrano. Si tratta di una tesi che non sembra trovare adeguati riscontri empirici. Può essere sufficiente, in questa sede, richiamare l’ultimo rapporto della Banca Mondiale che certifica che, con riferimento ai governi italiani, in una scala compresa fra lo 0 e il 100%, la qualità delle istituzioni italiane (in primis, la continuità governativa) si è ridotta dall’80% del 1996 al 55% del 2009, essendo di gran lunga superiore la qualità delle istituzioni tedesche. Ma, a fronte della migliore qualità delle istituzioni tedesche, le delocalizzazioni sono state più massicce in Germania che in Italia.
2) E’ opinione diffusa che le imprese decidano di delocalizzare se i salari sono più alti nel Paese nel quale operano e più bassi nel Paese nel quale potrebbero migrare[3]. Evidentemente occorre che sussistano le condizioni che rendano possibile la delocalizzazione sul piano tecnico, ovvero che sia possibile investire altrove con costi ragionevolmente bassi. Si consideri, a riguardo, che l’Italia è, fra i Paesi OCSE, quello che ha dato maggiore accelerazione alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro (e nel quale i salari medi sono fra i più bassi in ambito europeo) e, contestualmente, che ha sperimentato un’intensificazione dei processi di delocalizzazione in uscita molto significativa, con ben scarsi flussi in entrata.
Quest’ultima interpretazione razionalizza parte del fenomeno. Altri fattori concorrono a determinarlo e, fra questi, è opportuno considerarne almeno due.
a) La quantità e qualità delle delocalizzazioni è significativamente influenzata dall’erogazione di finanziamenti per l’attrazione di investimenti nel Paese ospitante. Il caso della Serbia, in tal senso, è emblematico[4]. Con il Decreto 70/2008 della repubblica serba è stato stanziato un fondo specificamente destinato a questo fine, con la clausola che – per l’erogazione di finanziamenti – occorre tener conto in primis della quotazione in borsa dell’impresa e della sua capacità di trasferire “alte tecnologie” (art.13). Questo dispositivo costituisce una spinta rilevante, per le grandi imprese, a lasciare nei Paesi d’origine le filiere di produzione a bassa intensità tecnologica e, conseguentemente, ad occupare prevalentemente lavoratori con basse competenze o sottoccupati. Ovvero, di norma, lavoratori ai quali viene somministrato un contratto di lavoro a tempo determinato.
b) Le delocalizzazioni possono essere favorite dalla precarietà del rapporto di lavoro non solo nel Paese di destinazione ma anche in quello di partenza. Infatti, la diffusione di rapporti di lavoro precario costituisce una condizione permissiva per la mobilità dei capitali, almeno nel senso che consente all’impresa di non rinnovare i contratti di lavoro nel Paese dal quale intende migrare[5]. Ciò accade a ragione del fatto che, somministrando contratti a tempo determinato, l’impresa non è vincolata a produrre in loco, o comunque lo è meno rispetto al caso in cui vi siano vincoli alla libertà di licenziamento. In quest’ultimo caso, infatti, l’impresa dovrebbe sostenere costi di licenziamento che, in regime di precarietà, non sostiene.
Occorre chiarire che la piena mobilità internazionale dei capitali contribuisce ad aggravare la crisi, in quanto rafforza la concorrenza fra Stati al ribasso dei salari e della spesa pubblica e, dunque, alla caduta della domanda aggregata e dell’occupazione, su scala globale, riducendo i mercati di sbocco e rendendo, conseguentemente, più difficile la realizzazione monetaria dei profitti per le imprese nel loro complesso[6]. E in fine dei conti, per ogni singolo Paese, le politiche di bassi salari, precarizzazione del lavoro e riduzione dei diritti dei lavoratori – oltre a essere socialmente dannose – possono non risultare efficaci nel contrastare le scelte di delocalizzazione e il conseguente aumento del tasso di disoccupazione. E ciò per il possibile innescarsi di una spirale perversa, che va dalla caduta dei salari al ristagno della domanda aggregata interna (a causa della contrazione della domanda di beni di consumo[7]) e può portare al disinvestimento in quell’area e ad ulteriori compressioni salariali[8]. A ciò si aggiunge che, a fronte del calo della domanda, le imprese sono disincentivate ad introdurre innovazioni, generando, per questa via, riduzioni della produttività del lavoro[9].
Le scelte di localizzazione possono essere, dunque, significativamente determinate dall’ampiezza dei mercati di sbocco e dalla dinamica della produttività e, per le cause qui individuate, i bassi salari sono, di norma, associati a bassa produttività. E la reiterazione di politiche di deflazione salariale e di precarizzazione del lavoro non può che accentuare il problema.