Il minimo che ci si aspetterebbe da una politica di risanamento dei conti pubblici è che sia almeno consistente col proprio obiettivo, rendendo più sostenibili (qualsiasi cosa questo concetto significhi) le finanze pubbliche. Andando oltre, è lecito chiedersi se gli inevitabili costi del risanamento abbiano pesato nella stessa misura su sistemi economici segnati da diverse caratteristiche istituzionali e produttive. Guardando ai numeri sembra che il rigore fiscale, mal concepito e peggio attuato attraverso l’Europa, abbia finito per nuocere in particolare ai sistemi economici più vulnerabili (specie per deficienze del settore privato) e quindi non in grado di sopportare un brusco e profondo riequilibro dei conti pubblici. La legittima richiesta di un cambiamento della politica economica interna o dei vincoli europei dovrebbe perciò abbinarsi ad un’azione di cambiamento strutturale del modello di sviluppo.
Le varie riforme intraprese dal 2010 per rafforzare la sorveglianza delle politiche fiscali e macroeconomiche e per creare dei meccanismi di gestione delle crisi sono state l’esito di un processo lungo con frequenti stop-and-go e irragionevolmente tortuoso. In alcuni casi gli strumenti adottati sono poco coerenti con gli obiettivi iniziali[1], i quali partivano a loro volta da analisi incomplete e non obiettive dell’origine della crisi e (anche nel caso la lettura della crisi fosse esatta) della maniera per superarla. Si tratta di analisi e soluzioni che incorporano le caratteristiche dei sistemi economici e culturali degli Stati del centro-nord i quali, dopo aver imposto nel 1998 la teoria e prassi monetaria da sempre praticata in casa loro, hanno approfittato dell’emergenza provocata della crisi economica per imporre un modello economico e fiscale in linea con propri interessi in quanto creditori, a discapito della solidarietà che dovrebbe contraddistinguere i partner di un’unione monetaria.
Come spesso accade nelle faccende economiche, non si è imposta la posizione più efficiente. Semplicemente è prevalsa l’espressione degli interessi dei paesi più potenti politicamente ed economicamente (con un forte parallelismo con quanto accade nella teoria economica)[2].
La riduzione del 3% del deficit nominale e strutturale dei 27 paesi dell’Unione tra il 2010 ed il 2013 è un risultato che dimostrerebbe l’efficacia dell’austerity se non altro limitatamente al suo obiettivo naturale. La riduzione strutturale è stata maggiore nei paesi con maggiori disequilibri fiscali iniziali (fig.1), ma ha interessato in maniera sensibile anche i paesi con disavanzi strutturali poco superiori al 3 per cento e con costi di finanziamento molto bassi. Il fatto che l’entità della riduzione del deficit strutturale sia identica a quella nominale indica però che il ciclo economico mediamente non sia migliorato durante il periodo considerato, malgrado il battage sui presunti effetti espansivi dei consolidamenti. Nel 2009 l’output gap medio (la differenza tra il prodotto interno lordo effettivo e quello potenziale) era il 3,5 per cento del Pil potenziale e dopo una breve discesa fino al -1,3, nel 2013 è risalito ancora al -2,8. Il nuovo peggioramento del ciclo ha molto a che vedere con la stretta fiscale.
Il giudizio sulla consistenza dell’austerity diventa ancora più incerto se si guarda al principale indicatore di sostenibilità. Il rapporto medio del debito pubblico rispetto al Pil tra il 2009 e il 2013 è aumentato di circa 15 punti[3]. Nella area dell’Euro la dinamica è stata trainata specialmente dall’alto differenziale tra interessi e crescita, malgrado tassi nominali sempre poco superiori allo zero (fonte: Commissione Europea, Public Finance in EMU 2013). L’aumento degli spreads e la recessione hanno quindi vanificato i miglioramenti realizzati sul piano fiscale.
Riassumendo, dal 2010 i paesi creditori hanno imposto un’identica politica fiscale che non è riuscita a migliorare il ciclone ad evitare l’incremento del debito pubblico. La riduzione dei deficit è interpretabile come un risultato positivo solo utilizzando la miope logica numerica delle regole fiscali europee.
Per giudicare gli effetti dell’austerity sul tasso di crescita dell’economia nel periodo dal 2010 al 2013 basta una semplice regressione lineare su dati cross-section dei paesi della UE, utilizzando come indicatore del profilo di politica fiscale (fiscal stance) la variazione complessiva del saldo strutturale (cioè al netto del ciclo, in modo da evitare complicazioni statistiche legate all’endogeneità tra Pil e deficit nominale, e delle misure una tantum) calcolato dalla Commissione Europea[4].
Il campione è stato inizialmente diviso a seconda che la crescita complessiva dal 2010 al 2013 sia stata o meno superiore alla media della UE (3,36%). Nel quinquennio precedente la grande crisi, crescita e profilo delle politiche fiscali sono stati statisticamente identici tra i due gruppi di paesi. La crescita sostenuta e quasi generalizzata di quegli anni (in cui il prodotto aumentò in media di oltre il 12 per cento) non è stata certo dovuta ad una politica fiscale espansiva: i dati parlano infatti di un orientamento leggermente anticiclico (0,38% di consolidamento). Ovviamente esistevano altri fattori (bolle immobiliari e bancarie, domanda dei BRICs) che permettevano pressappoco a tutti i paesi di crescere a livelli vicini al proprio potenziale.
A partire dal 2010, nel totale del campione emerge il chiaro effetto negativo del aggiustamento fiscale sulla crescita (fig.1); ogni punto di riduzione del deficit strutturale ha infatti comportato un costo di 1,21 punti di Pil, un valore in linea con molte stime sull’entità dei moltiplicatori in tempo di crisi[5]. L’austerity pesa perché è molto più intensa (3 per cento del Pil) e anche perché molti dei precedenti fattori esogeni sono venuti meno.
Guardando i sotto campioni si trova però che il freno dell’austerity ha morso solo negli 11 paesi in cui la crescita è stata più bassa della media. L’effetto negativo non è presente negli altri paesi, cresciuti in media di quasi 9 punti percentuali malgrado un notevole grado di rigore (2% di Pil in media) statisticamente non diverso da quello dei paesi a bassa crescita.
L’Italia condivide col Portogallo la poco invidiabile caratteristica di unici Stati cresciuti meno della media sia prima sia dopo la grande crisi. Conta anche la composizione dell’aggiustamento: rispetto al quinquennio precedente, tra il 2009 ed il 2013 l’Italia ha ridotto di 0,24 punti di Pil i già bassi investimenti pubblici in capitale fisso, meno di quanto fatto da altri paesi in recessione ma comunque una scelta opposta rispetto a quella dei membri del gruppo “virtuoso”, i quali anche durante il consolidamento dei conti hanno trovato il modo per incrementare di 0,67 punti di Pil in media gli investimenti pubblici. Si tratta di una scelta che funziona al tempo stesso da misura anticiclica e da strumento per aumentare il potenziale di crescita dell’economia[6].
Queste informazioni sono ovviamente provvisorie e suscettibili di smentita da analisi che includano un insieme più ampio di variabili per dare conto di altre differenze, ad esempio di competitività o di spesa pubblica sacrificata sull’altare del debito. Bastano però a capire come mai alcuni paesi non abbiano sentito la necessità di praticare un allentamento del rigore interno. Inoltre, esse ci ricordano che in presenza di una crisi strutturale vengono in superficie le differenze[7] originate dalla diversa maniera in cui si sono andati modellando nel tempo gli assetti istituzionali che condizionano la performance di ogni sistema.
La dinamica dei capitalismi è condizionata principalmente da come vengono risolti i conflitti generati dalla presenza di gruppi o classi sociali portatori d’interessi divergenti, determinando quindi il modo in cui si incontrano domanda ed offerta[8]. Il successo del modello tedesco, ad esempio, non è comprensibile guardando solo alla riduzione del cuneo fiscale o ad altre misure spacciate per necessarie in Italia. Tali provvedimenti legislativi sono stati la conseguenza e non il presupposto di interessi sociali conflittuali che si sono conciliati tramite una serie di compromessi sociali strutturati attorno ad un modello produttivo trainato dalle esportazioni (export-led) capace di generare il consenso politico necessario alla sua riproduzione.
Gli assetti tipici di un sistema sono difficilmente innestabili su un altro, al contrario di quello che pensano i fautori delle “riforme strutturali” (il degno complemento teorico degli “aggiustamenti fiscali espansivi”). Un ripensamento collettivo della maniera in cui sono regolati i processi di produzione, distribuzione e accumulazione del prodotto può costruire le condizioni per cui il necessario rilancio della domanda interna possa avere effetti positivi sull’occupazione senza creare nuovi squilibri esterni[9], tramite la creazione, per la prima volta in Italia, di un circolo virtuoso tra domanda più elevata e offerta di migliore qualità.
Per coglierne la necessità potrebbe bastare un elenco di alcuni tra i noti limiti dell’attuale assetto: specializzazione produttiva, dimensionale, geografica antiquate, basso grado d’innovazione e di investimenti privati in ricerca e sviluppo, bassa crescita di produttività e quindi dei salari, basso tasso di partecipazione al mercato del lavoro (di giovani e donne in primis), basso tasso di riuscita scolastica, evasione fiscale elevatissima, sperequazione di redditi e ricchezze, pubblica amministrazione piena di personale a volte molto qualificato e sempre poco motivato.
Iniziare a “sbattere i pugni” da noi renderebbe molto più facile farlo poi a Bruxelles.