Nel bel numero di Micromega di marzo (3/2013) dedicato alla diseguaglianza, pur in un comune sentire nei riguardi della crescente ingiustizia sociale che si è manifestata nelle decadi recenti, vi sono delle significative differenze nella maniera in cui la problematica è avvicinata. In particolare, nel suo saggio Maurizio Franzini accusa gli “economisti eterodossi” di sottovalutare il tema della diseguaglianza al pari degli economisti “ortodossi”. In un senso ha ragione, ma in un altro ha torto. Credo sia utile ai lettori un chiarimento su questo punto agevolandoli a discernere ancor meglio le diverse posizioni che la rivista ha cercato di veder rappresentate.
Intanto chi sono gli “economisti eterodossi”. Fondamentalmente si tratta degli economisti seguaci della tradizione critica che muove da Marx e dagli economisti classici (come Smith e Ricardo, tradizione ripresa nel secolo scorso da Piero Sraffa) e dagli aspetti più innovatori dell’analisi di Keynes. In sintesi, questa tradizione ritiene che il capitalismo soffra di una contraddizione fondamentale. Da un lato i ceti dominanti si appropriano di una quota notevole del prodotto sociale in varie forme quali profitti e rendite – quello che gli economisti Classici e Marx chiamavano sovrappiù, ciò che rimane del prodotto sociale una volta pagati i salari ai lavoratori. Dall’altro, tuttavia, i ceti dominanti non sono in grado di consumare tutto questo sovrappiù. Per gli economisti critici l’ingiustizia sociale è dunque un fatto congenito al capitalismo senza la necessità di defaticanti dispute etico-filosofiche. L’ingiustizia sociale è inoltre la fonte della crisi: la compressione dei salari dei lavoratori se accresce il sovrappiù, crea anche uno strutturale problema di domanda aggregata. Come spiegò Marx, ciascun capitalista vorrebbe pagare bassi salari (sì da godere di elevati profitti), ma al contempo vorrebbe che gli altri capitalisti pagassero alti salari in modo che i consumi dei lavoratori sostengano la domanda aggregata.[1] Una contraddizione insanabile a cui il capitalismo ha nella storia risposto in diverse maniere. In maniera positiva durante i primi tre decenni del secondo dopoguerra accrescendo la spesa sociale (dunque il salario indiretto). In maniera più balorda nei decenni recenti compensando il peggioramento dell’equità distributiva con l’indebitamento delle famiglie (v. Stiglitz & Gallegati, ivi, p. 16). Ed anche col mercantilismo con cui alcuni paesi come la Germania hanno scaricato sulle esportazioni la compressione dei consumi interni, incentivando l’indebitamento di altri paesi. Mentre il primo modello ha incontrato un’insostenibilità politica una volta venuta meno la sfida sovietica (si veda l’intervento di Pivetti, ivi, p. 228), l’insostenibilità dei debiti di famiglie e nazioni hanno messo in crisi gli altri due modelli. Nella visione critica, dunque, giustizia sociale e piena occupazione sono legate da nesso inscindibile. Le politiche di piena occupazione, inoltre, stimolano produttività e innovazione, e dunque consentono di premiare il merito in un quadro di tollerabile equità. La questione è l’accettabilità da parte del capitalismo di un’economia di piena occupazione. Infatti l’elevata occupazione accresce il potere contrattuale dei lavoratori ed è funzionale a cambiamenti distributivi a loro favore e a una maggiore giustizia sociale, come suggerito dalla magistrale lezione di Kalecki e dall’esperienza storica concreta.
Sulla base di ciò che scrive, Franzini sembra tuttavia prendere le distanze da questa visione – se non in un passaggio in cui riconosce la centralità del tema distributivo in Ricardo, senza domandarsi però perché quella impostazione fu abbandonata dall’economia borghese a favore della più rassicurante teoria neoclassica, di cui l’Economia del benessere cara alla scuola di Franzini è componente (v. Pivetti, ivi, p. 231). In particolare l’autore (ivi, p. 245) argomenta che “le analisi empiriche di cui disponiamo portano a esiti tutt’altro che convergenti e l’influenza negativa della diseguaglianza sulla crescita non appare meno solida del suo opposto”. Egli sembra così porre sullo stesso piano, negandole entrambe, la tesi “ortodossa” dell’effetto negativo dell’equità sulla crescita in quanto disincentivante dell’impegno individuale, e quella “eterodossa” degli effetti positivi dell’equità su domanda e occupazione.
Per le critiche alla tesi “ortodossa” rimando alle mie obiezioni al Reichlin nel volume che stiamo esaminando. In esse argomento che è solo sulla base dell’idea (anti-keynesiana) che la flessibilità dei mercati conduca il sistema capitalistico alla piena occupazione che Reichlin (et hoc genus omne) può argomentare che l’occupazione (e la sua qualità) siano frutto dell’impegno individuale da incentivare con una struttura di premi-punizioni. Se non fosse vero che il capitalismo graviti spontaneamente verso il pieno impiego, come sostenuto dalla tradizione critica, la questione occupazionale avrebbe poco a che fare con la struttura premi-punizioni, essendo la disoccupazione largamente involontaria (ivi, p. 111). Concordo inoltre molto con Franzini che è rendendo più equa la distribuzione del reddito che si livellano le opportunità facendo emergere il merito, e non viceversa (p. 244). Rimane il fatto, però, che Franzini sembra dar credito alla tesi “ortodossa” quando concede che sebbene una maggiore eguaglianza possa nuocere alla crescita, un mondo che cresce di meno ma sia più equo potrebbe essere tuttavia preferibile a uno “più diseguale in cui l’economia cresce velocemente” (ivi, p.247). Dilemma quest’ultimo assai opinabile e che pecca di quella “forma non lieve di paternalismo autoritario” che l’autore imputa agli “ortodossi”. In ogni caso è proprio rifiutando la tesi “eterodossa” che Franzini sembra cacciarsi in questa trappola.
In merito alla tesi “eterodossa”, Franzini l’accusa di restare vittima “di qualche confusione… tra livello della domanda e crescita dell’economia, che non sono esattamente la stessa cosa” (ivi, p. 246). Purtroppo aggiunge poi che “non è questa la sede per andare più a fondo sulla questione”. La questione ci sembra, tuttavia, così centrale da sembrare meritevole di un approfondimento. A ben vedere, evidentemente, questo tipo di posizione ritiene che gli effetti positivi dell’equità su domanda e occupazione riguardino al più il breve periodo, mentre la crescita (il lungo periodo) dipenda da altri fattori che, tertium non datur, non possono che essere quelli della teoria ortodossa, in particolare un elevato tasso di risparmio. Se ne deduce che nel lungo periodo l’equità, determinando minori risparmi – in quanto la propensione al risparmio dei ceti medio-bassi è più bassa di quella dei ceti medio-alti –, danneggia la crescita, l’opposto di quanto sostenuto dagli economisti “eterodossi”.
L’impianto tradizionale emerge anche nella pallida critica che viene mossa alla teoria neoclassica della distribuzione (ivi, p. 248). In sintesi, questa cerca di dimostrare che in concorrenza ogni “fattore produttivo” (come lavoro e capitale) ottiene reddito in maniera commisurata al suo apporto alla produzione. Si sostiene che questa teoria sarebbe valida solo nel caso non vi fossero imperfezioni di mercato. Ma qualunque economista “ortodosso” – in particolare quelli più rispettati dalla scuola di Franzini come Marshall o Pigou – argomenterebbe che questa teoria è pur sempre approssimativamente valida (come la legge di gravità si applica a una foglia che cade pur in presenza di vento che temporaneamente la sollevi). Siamo comunque lontani dalle fondamenta dell’ingiustizia sociale proprie dell’approccio “eterodosso”.
Tesi divergenti dall’impianto Classico-Keynesiano degli “eterodossi” emergono anche in altri saggi. In particolare Pianta ritiene cha la diseguaglianza e non la disoccupazione sia “l’ingiustizia più grande del paese” (ivi, p.36), smarrendo così il loro nesso. Così pure la condivisione della visione “ortodossa” della crescita emerge laddove egli scrive che “lo stock di ricchezza” si riduce “quando i risparmi sono usati per consumare, come avviene ora in tempi di crisi” (ivi, p.38). Dunque più consumi danneggiano la crescita. Non si tratta di sottigliezze teoriche. La realtà la si legge con le lenti di una teoria. Se questa è debole, o addirittura sbagliata, fragile sarà l’interpretazione dei fatti, spesso ridotta a un tedioso snocciolamento di dati.[2]
A dar man forte alle tesi “eterodosse” qui difese c’è il saggio di Stiglitz (con Gallegati) che tutto gira attorno alla tesi che “l’intero deficit di domanda aggregata è oggi dovuto a fenomeni estremi di diseguaglianza” (ivi, p.17 e passim). E’ questo un sostegno di cui gli economisti critici non sentono particolarmente la necessità, ma che naturalmente può rassicurare molti lettori. Fa naturalmente gioco avere economisti come Stiglitz o Krugman come compagni di strada in questo frangente. Non va però dimenticato che non una singola virgola essi hanno mutato nei loro libri di testo (e lo stesso vale per Gallegati) in cui a un’interpretazione caricaturale di Keynes, per giunta ritenuta valida esclusivamente nel breve periodo, si accompagna il sostegno pieno alla teoria “ortodossa” per ciò che riguarda la crescita. Fatto sta, comunque, che nel contributo pubblicato dalla rivista Stiglitz è indiscutibilmente dalla stessa parte degli “eterodossi”.
Concludendo, Franzini ha certamente torto nel non vedere come il tema della diseguaglianza sia assolutamente fondante dell’approccio Classico-Keynesiano. Ma ha ragione nel sospettare che gli economisti critici siano scettici sull’enfasi assegnata a questo tema visto isolatamente e alla stregua di un problema etico-morale. Questi ritengono, infatti, che esso non vada scisso dai suoi nessi il funzionamento dell’economia capitalistica, in particolare con l’analisi della determinazione dei livelli di occupazione, nel breve come nel lungo periodo. La tematica della diseguaglianza può altrimenti rischiare di costituire, magari involontariamente, la foglia di fico per non affrontare l’insieme delle contraddizioni del sistema in cui viviamo.