Che cosa sarà del lavoro, in Italia, oltre la crisi? A giudicare dalle promesse del Libro Bianco su “La vita buona nella società attiva”[1], pubblicato all’inizio di maggio dal ministro Sacconi, nulla di luminoso. Non c’è nessun elemento che possa indicare una “via alta” per superare la crisi, nel Libro bianco. Si ha l’impressione, piuttosto, che il Governo in carica non si stia lasciando sfuggire l’occasione che gli si presenta allorché le funzioni di indirizzo politico in materia di lavoro, sanità e inclusione sociale sono attribuite ad un unico Ministero, e gli equilibri parlamentari consentono una pressoché immediata traduzione degli intenti di governo in atti di legge: l’occasione, cioè, per portare a compimento la destrutturazione delle regole emerse dal compromesso fordista.
Le statistiche del lavoro – insieme a innumerevoli ricerche – mostrano come la destrutturazione del mercato del lavoro abbia reso strutturale l’instabilità lavorativa e abbia prodotto una tendenza alla contrazione della popolazione attiva (soprattutto fra le donne e nel Mezzogiorno)[2], contribuendo anche alla deresponsabilizzazione dei ceti imprenditoriali e al decadimento del tessuto industriale del Paese[3]. Quanto alla crisi in corso, poi, già il rapporto Istat 2008 ne prefigura l’impatto disastroso sul mondo del lavoro: cresce la disoccupazione (anche a fronte di un aumento degli attivi, sollecitato proprio dall’emergenza), cresce il ricorso alla cassa integrazione; e la perdita del lavoro riguarda soprattutto i tradizionali breadwinners dell’economia italiana.
Ma neanche la manifestazione acuta di una crisi economica del capitalismo induce a mettere in discussione il quadro regolativo. Anzi, al “dopo-crisi” bisogna prepararsi disponendosi a una più dura competizione sui livelli di costo della manodopera: «Quando il mondo tornerà a crescere […] maggiori saranno le pressioni su occupazione e salari derivanti dalla ulteriore integrazione nella economia mondiale dei Paesi un tempo periferici. Altrettanto importanti saranno le spinte per una continua rilocalizzazione dei processi produttivi» (pp. 9-10).
Gli interventi regolativi delineati nel Libro bianco si possono riassumere in quattro profili.
1) Sul piano della regolazione del rapporto di lavoro, viene ripresa l’etichetta di Statuto dei lavori, per evocare un programma di riforma che superi la distinzione fra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Il superamento dell’idea stessa di subordinazione viene dunque avanzato come presupposto regolativo adeguato a un nuovo modo di pensare i rapporti di produzione, che consiste nel «superare ogni residua cultura antagonista nei rapporti di produzione e avviare, in un rinnovato clima di fiducia e collaborazione, una virtuosa alleanza tra capitale e lavoro […] in un mondo ragionevolmente destinato a sopportare frequenti cause di instabilità» (p. 57). Più in generale, il Libro Bianco fa sua l’inestinguibile insofferenza imprenditoriale per i vincoli nel trattamento della manodopera: «anche dopo le recenti innovazioni apportate dalle leggi Treu e Biagi è palese l’insofferenza verso un corpo normativo sovrabbondante e ostile che, pur senza dare vere sicurezze a chi lavora, intralcia inutilmente il dinamismo dei processi produttivi e l’innovazione nella organizzazione del lavoro» (p. 19).
2) Sul piano della regolazione del mercato del lavoro, si dà per scontato che la precarietà occupazionale debba essere portata alle estreme conseguenze, salva la consueta evocazione della chimera della flexicurity: «da una concezione statica di tutela del singolo posto di lavoro si deve definitivamente passare alla promozione della occupabilità della persona avviando, come già ipotizzato dalla legge Biagi, la costruzione di una rete di tutele sul mercato che preveda il coinvolgimento del mondo associativo e degli enti bilaterali e una maggiore attenzione al potenziamento delle competenze del lavoratore tale da consentirgli di prevenire e gestire al meglio le criticità nelle transizioni occupazionali» (p. 34).
3) Sul piano delle relazioni industriali, il superamento dell’antagonismo fra capitale e lavoro viene tradotto in una riconfigurazione della struttura della contrattazione collettiva (già iniziata con l’accordo separato del 15 aprile scorso), aprendo uno spazio anche alla contrattazione individuale: «Una più marcata dinamica dei redditi da lavoro e una più efficiente distribuzione della ricchezza attraverso i salari si realizzano […] – anche in condizioni di crescita bassa o negativa – garantendo uno spazio adeguato alla contrattazione collettiva aziendale e, nel quadro di questa, anche ad accordi individuali» (p. 56).
4) Sul terreno del Welfare, si annuncia la definitiva transizione verso lo Stato sociale minimo: un Welfare residuale, confinato al trattamento della povertà assoluta: «La povertà assoluta non va […] confusa con la povertà relativa. La prima indica la parte della popolazione che vive al di sotto del minimo vitale e perciò sollecita interventi tempestivi e diretti per rimuoverla. La seconda è utile a monitorare il livello delle disuguaglianze dei redditi per le necessarie politiche correttive» (p. 46). È come dire che la povertà relativa diventa oggetto di un interesse meramente futuro ed eventuale. Si incentiva inoltre l’intervento privato nella prestazione di servizi sociali, sulla base del «rigoroso postulato della centralità della persona nel nuovo Welfare» (p. 52), che il Governo rigorosamente interpreta, in chiave neo-liberale, come centralità del mercato.
Il repertorio di rappresentazioni della società e del lavoro sul quale il Libro Bianco si fonda è dunque in piena continuità con la dogmatica economica che ha veicolato la crisi. In particolare, i presupposti delle innovazioni annunciate dal Libro Bianco nella regolazione del lavoro – in un momento storico in cui appare evidente che la proprietà e l’impresa tornano a essere un ostacolo alla libertà e alla dignità delle persone – sono la reiterazione di tutte le principali illusioni alimentate dalla vulgata funzionalista del postfordismo:
1) L’illusione che l’organizzazione dell’impresa e del lavoro sia attraversata da un continuo e profondo rinnovamento, innervato da tecnologie intrinsecamente dotate di potenziale emancipativo: «I modelli organizzativi d’impresa hanno conosciuto innovazioni radicali che segnano la definitiva transizione verso una economia della informazione e della conoscenza» (p. 13);
2) l’illusione di una maggiore partecipazione e di un guadagno di autonomia degli esecutori nei processi produttivi: «Aumenta l’autonomia del lavoratore nella realizzazione delle proprie mansioni e progressivamente si stemperano i rigidi vincoli di subordinazione gerarchica e funzionale» (ibidem);
3) l’illusione che la segmentazione dei cicli produttivi, le esternalizzazioni e le delocalizzazioni siano scelte di efficienza: «Risulta oggi più efficiente per ciascun operatore concentrarsi sulla propria attività principale e approvvigionarsi, in qualunque parte del mondo, da soggetti terzi dotati di un prezioso know how immateriale ed organizzativo» (ibidem).
In un panorama nel quale la regolazione flessibile del lavoro è interpretata dalle imprese come massimizzazione dei livelli di costrittività, di queste illusioni si sono nutrite e continuano a nutrirsi le proposte di riforma periodicamente avanzate da giuslavoristi[4] (e più recentemente da economisti[5]) in cerca di visibilità, “novelli legislatori”[6] le cui argomentazioni sono diventate, nel volgere di qualche anno, la chiave di volta delle “riforme” adottate dalle varie maggioranze parlamentari.
In assenza – e in attesa – di un’adeguata rappresentanza politica del lavoro in Italia, il miglior contributo che può venire dalle scienze sociali alla difesa del lavoro è forse proprio nell’evitare di alimentare la retorica del nuovo, e cercare piuttosto di sollecitare un ripensamento, che metta in discussione le mitologie postfordiste e – difendendo innanzitutto quel che resta della tutela del reddito e dell’occupazione – si orienti a risalire il piano inclinato della flessibilità.
* Università del Salento