L’affannosa riscrittura del decreto sull’IMU (il DL 102-2013, il cui testo approvato dal Consiglio dei Ministri è stato modificato in modo significativo prima della presentazione al Parlamento) suggerisce una riflessione sulle tendenze evolutive del sistema fiscale italiano. Da almeno un decennio si è affermata una tendenza per la quale le diverse ipotesi agevolative si sono tradotte in un’ulteriore riduzione dei redditi soggetti all’Irpef, la prima imposta per gettito e, quel che conta, sostanzialmente l’unica ad operare quella progressività del sistema fiscale indicato anche dalla Costituzione come strumento dell’azione redistributiva. Nel tempo sono stati sottratti all’Irpef, e assoggettati a contenute aliquote proporzionali, risultanti cioè in uno sconto crescente per i redditi più alti, diverse fattispecie: le rendite catastali delle abitazioni principali, i premi di produttività, i redditi degli autonomi cosiddetti “minimi”, gli affitti dei fabbricati e infine, dall’anno d’imposta 2012, le rendite catastali dei fabbricati a disposizione. Inoltre era giacente alla fine della scorsa legislatura, ed è stato riproposto in quella vigente, un DDL delega di riforma fiscale che prevede ulteriori sostanziose e costose esclusioni dall’Irpef, attraverso una tassazione ad aliquota proporzionale ridotta di quote di reddito di imprese personali.
L’insieme di questi interventi, che si sono aggiunti alla tradizionale esclusione dei redditi finanziari ed alla tassazione sostanzialmente proporzionale dei dividendi da società di capitali, sembra prefigurare una perdita di ruolo, non dibattuta e non scelta esplicitamente dal policy maker, dell’imposta personale progressiva, con una trasformazione in un’imposta “di specie” (reddito da lavoro dipendente e da pensioni) che costituisce, di fatto, la premessa per l’abbandono della progressività e l’adesione a modelli non redistributivi di flat tax. Anche l’abnorme innalzamento delle aliquote marginali effettive oltre il 40% a partire da redditi inferiori ai 30mila euro, fenomeno nettamente accentuatosi nell’ultimo decennio, contribuisce all’affermarsi di questa tendenza.
L’esclusione delle rendite catastali degli immobili a disposizione presenta tuttavia alcune ulteriori peculiarità che erano probabilmente alla base della loro reintroduzione in Irpef, contestualmente al ridisegno dell’imposizione immobiliare e all’abolizione dell’IMU. In primo luogo, si sono ampliate le differenze di carico fiscale sui fabbricati: fino al 2011 le rendite catastali dei fabbricati a disposizione erano imponibili Irpef con una maggiorazione di un terzo, mentre l’ICI non faceva distinzioni in base alla locazione o meno. Con l’esclusione dei fabbricati a disposizione dall’Irpef e la permanenza della tassazione degli affitti, invece, si è accentuata la divaricazione tra immobili affittati vs quelli tenuti a disposizione, con maggior favore anche per il “reddito netto da mancata dichiarazione dell’affitto” (evasione). In secondo luogo, l’esclusione dall’imponibilità Irpef dei fabbricati a disposizione ha avuto effetti di disparità di trattamento verso i percettori di altri redditi, in quanto l’indicatore usato per stabilire la quota spettante delle detrazioni per tipo di reddito e per carichi familiari comprende i vari redditi imponibili ed anche quelli da affitto soggetti a cedolare secca, ma non le rendite catastali degli immobili a disposizione. Si tratta di una discrepanza di trattamento che risulta iniqua e poco accettabile anche quando non muove importi rilevanti: a parità di reddito, un possessore di fabbricati a disposizione risulta ad esempio più “povero” e bisognoso di sostegno per carichi familiari, rispetto a percettori di ugual reddito da lavoro o anche da affitto regolarmente dichiarato.
Il reinserimento in Irpef della metà delle rendite catastali dei fabbricati a disposizione era peraltro un gesto quasi solo simbolico: dai dati dell’Osservatorio immobiliare della ex Agenzia del territorio si evince che il valore catastale rivalutato ai fini IMU è mediamente il 41% del valore di mercato di un fabbricato. Tuttavia la rendita catastale di una casa è solo lo 0,62% del valore catastale rivalutato ai fini IMU, cioè lo 0,25% del valore di mercato, mentre l’affitto di mercato si colloca attorno al 3% di tale valore, cosicché si può stimare che la rendita catastale risulti inferiore ad un decimo del corrispondente reddito figurativo di mercato. La metà di tale rendita sarebbe stata dunque meno di un ventesimo del corrispondente reddito, e l’imponibilità Irpef sarebbe risultata poco più di una affermazione di principio sulla considerazione dei vari redditi e dei conseguenti indicatori ai fini della progressività dell’imposta personale.
E’ forse per questa implicazione di sistema, oltre che probabilmente per una non piena percezione dell’entità trascurabile di tale tassazione, che è stata subito contestata la reintroduzione parziale in Irpef di queste rendite catastali, contestualmente all’abolizione dell’IMU e dopo un solo anno di esclusione. E, per i motivi qui esposti, oltre che per la rinuncia all’esercizio di una coerente e lungimirante azione di governo, appare discutibile la scelta del Governo di modificare prima del dibattito parlamentare un testo appena approvato, rinunciando ad una correzione di rotta di qualche rilievo sistemico sulla quale conviene forse riprendere una discussione argomentata.