Dopo anni di austerità, l’economia non riparte, la disoccupazione aumenta e i conti pubblici peggiorano (anche in paesi, come la Spagna, con un basso rapporto tra debito pubblico e pil prima della “crisi finanziaria”). I policy maker sono intervenuti per “salvare” il sistema, anche con salvataggi bancari (e un conseguente aumento del debito pubblico). E il sostegno alla domanda? Mancano i soldi, dicono. Ciò che vogliamo evidenziare è semmai il contrario: ci sono “troppi” soldi, concentrati in poche mani[1].
Tra fine anni ’70 ed inizio anni ’80 del Novecento, la svolta neoliberista – flessibilità del lavoro, globalizzazione, finanziarizzazione, etc. – ha promosso un recupero del tasso di profitto nelle economie avanzate, dopo le crisi petrolifere e la stagflazione. Come sottolineato dalla Lettera degli Economisti del 2010, la domanda globale è cresciuta meno della produttività e tende, quindi, ad essere carente rispetto alla capacità produttiva. In questo scenario di “bassi salari”, il credito può creare una fonte di finanziamento addizionale dei consumi. In particolare, l’espansione della finanza[2] è funzionale al processo di accumulazione capitalistica, in quanto svolge la funzione di “riciclaggio” della ricchezza accumulata (Foley, 2012). Prima o poi, però, l’aumento del debito (privato) e l’erosione dei redditi ad opera degli interessi, comportano un’instabilità finanziaria crescente. Un fallimento come quello di Lehman Brothers provoca un crollo della fiducia, i capitali si ritirano dalle posizioni più rischiose (flight-to-quality) e le condizioni nella “periferia” del sistema finanziario internazionale peggiorano (ad esempio, i capitali lasciano la Grecia e tornano in Germania, facendo emergere gli squilibri commerciali che da tempo caratterizzavano l’eurozona).
L’austerità mira a prolungare la fase neoliberista, proponendo ritocchi che, però, lasciano invariati i problemi di fondo dell’accumulazione capitalistica: in particolare, enormi disuguaglianze ed instabilità finanziaria. Problemi analoghi a quelli che emersero durante la belle époque di inizio Novecento[3]. Voler continuare su questa strada significa dover trovare nuove e remunerative occasioni di impiego finanziario per le enormi ricchezze che continuano ad accumularsi nelle mani di pochi (trickle-up economics). Ecco perché ci troviamo in una trappola della ricchezza: una situazione che non consente di ridimensionare la finanza e di ristabilire un percorso di crescita meno diseguale, e che invece promuove la diffusione del rischio, a danno della collettività che poi subisce le pesanti conseguenze “reali” della “crisi finanziaria”[4].
Come uscire dalla trappola della ricchezza? Ci sono almeno tre punti che andrebbero considerati: (i) tassazione, (ii) sostegno della domanda aggregata, e (iii) politica industriale.
La tassazione. Come mostrano Piketty e Saez (2013), il tasso di rendimento della ricchezza privata (al netto delle perdite) è tornato sopra il tasso di crescita dell’economia: conviene quindi essere rentier e non lavoratori, anche se “molto produttivi”. L’inversione di questa tendenza richiede un deciso intervento fiscale: per ristabilire l’efficienza economica di paesi come la Francia e gli USA l’aliquota fiscale ottimale sull’eredità dovrebbe essere dell’ordine del 50%-60% (o ancora maggiore per i super-patrimoni).
La domanda aggregata. Secondo l’insegnamento keynesiano, l’intervento pubblico a sostegno della domanda aggregata (con una banca centrale che affianca il governo) è necessario in un sistema che non è in grado, autonomamente, di uscire (se non nel lungo periodo) da una situazione di elevata disoccupazione. In un’ottica internazionale, inoltre, è necessario contenere sia il disavanzo (ad esempio, nella “periferia” dell’eurozona) che l’avanzo commerciale (ad esempio, in Germania)[5].
La politica industriale. L’intervento pubblico dovrebbe sostenere la domanda aggregata (obiettivo di breve-medio termine), ridimensionare il peso della finanza e indirizzare l’investimento verso i settori innovativi che ancora presentano un rischio elevato, lasciando poi spazio all’iniziativa privata (obiettivo di lungo termine). Da questo punto di vista, il settore pubblico si configura come uno “stato imprenditore” (Mazzuccato, 2013) che, nel mezzo di una crisi di sistema, promuove la creazione del “nuovo” e sostiene la società nel doloroso processo di distruzione del “vecchio”[6].
I tre punti precedenti sono legati da un filo comune, che unisce interventi di breve e lungo periodo: (i) l’imposizione patrimoniale (in particolare, sull’eredità) fornirebbe le risorse per finanziare (ii) il sostegno alla domanda aggregata e (iii) la politica industriale alla base di un nuovo modello di sviluppo fondato sulla conoscenza e la sostenibilità ambientale[7]. Allo stesso tempo, sono evidenti le implicazioni politiche di un progetto che punta alla piena occupazione (Kalecki, 1943): l’imposizione patrimoniale, da una parte, e l’aumento dell’occupazione e dei salari, dall’altra, andrebbero a ridurre la disuguaglianza, riportando la dinamica salariale verso quella della produttività, ristabilendo una maggiore mobilità sociale e, in generale, promuovendo un nuovo percorso di sviluppo, per uscire dalla crisi superando il modello neoliberista. All’1% non piacerebbe. Il 99% riuscirà ad organizzarsi?