In precedenti interventi (qui e qui) avevamo segnalato come la Germania costituisse un elemento di destabilizzazione dell’economia mondiale date le sue scelte neo-mercantiliste volte a basare una moderata crescita interna sulle esportazioni. Non eravamo, naturalmente, particolarmente originali in questo, Marcello de Cecco e Paul Krugman ad esempio fanno del ruolo della Germania un leitmotiv dei loro interventi. La macchina esportatrice tedesca si è rivelata formidabile facendone il primo paese esportatore mondiale, con una quota di esportazioni sul Pil pari al 48% a fine 2008; un surplus commerciale che nel recente passato ha superato quello della Cina. Tale indubbio successo si basa su una forza lavoro coscienziosa e ben addestrata, su una rete di ricerca efficiente, su una forte moderazione salariale. Questi fattori sono alla base dei formidabili guadagni di competitività che la Germania ha realizzato a sfavore, soprattutto, dei suoi concorrenti europei, l’Italia in particolare, verso i quali realizza la più parte dei suoi surplus. L’UME ha costituito cornice perfetta a tale scelte impedendo il tradizionale recupero di competitività attraverso la svalutazione delle monete dei paesi in disavanzo (impedire ciò fu la vera ragione per cui, da ultimo, fummo ammessi nell’UME); escludendo ogni forma di politica fiscale coordinata, che possa imporre agli austeri teutonici altre e ben diverse politiche; attribuendo alla competizione microeconomica il perseguimento di crescita e occupazione, come dire: non vi rimane che imitare il modello tedesco, se ne siete capaci, in una lotta all’ultimo sangue che è stata definita deflazione competitiva. Che si tratti di un modello miope è chiaro a molti, tranne naturalmente che ai più tenaci seguaci dei teoremi neoclassici i quali, purtroppo, non sono scomparsi neppure di questi tempi e anzi alzano sovente la voce, il che non sorprende dopo che i cosiddetti “New Keynesians” (gli Stiglitz ed i Krugman in testa) hanno concesso loro pressoché tutto sul piano della teoria.
Ora che le cose vanno peggio, la Germania sta cambiando pelle? L’esperienza maturata dall’autunno ha mostrato come la Germania sia stata il principale ostacolo alla realizzazione di forme concrete di coordinamento globale delle politiche economiche (su questo si veda un mio precedente intervento), in forme che rasentano certamente l’opportunismo e l’irresponsabilità, e sono degne di un Granducato, non della quarta economia mondiale. «We can only hope that the measures taken by other countries (…) will help our export economy» ebbe a dichiarare il ministro tedesco dell’economia lo scorso autunno (Financial Times, 30/11/2008). Così come, sistematicamente, Angela Merkel ha rintuzzato le velleità francesi di istituzionalizzare il coordinamento delle politiche economiche in Europa, coordinamento che potrebbe diminuire la sacra indipendenza della BCE, o a meglio vedere, la tutela tedesca sulla BCE. La Merkel non ha infatti perso l’occasione, lo scorso giugno, di ricordare alla Banca chi è che comanda quando le ha rimproverato di sostenere l’espansione dei disavanzi pubblici a bassi tassi di interesse attraverso la fornitura di grandi quantità di liquidità al sistema bancario, da questo successivamente collocati in sicurezza in titoli pubblici[1]. L’ossessione di una futura inflazione appare dominare a Berlino. Il messaggio è chiaro: mai e poi mai la Germania abbandonerà il proprio modello mercantilista. La Germania, traendo vantaggio dal proprio lugubre passato, rifiuta un ruolo di leader politico globale e regionale, e in tal senso anche le conseguenti responsabilità nei riguardi della politica economica internazionale: la famosa situazione del nano politico e del gigante economico. Nei fatti, tuttavia, la Germania la propria potenza la esplica eccome; anche se, come è nella logica antica del mercantilismo, ciò che importa non è se il modello accresce la mia ricchezza in termini assoluti, l’importante è che la mia ricchezza rimanga superiore alla tua.
Questa scelta è stata rafforzata da due decisioni la cui rilevanza appare essere sfuggita ai nostri commentatori nostrani, con l’eccezione dell’ottimo Bastasin su Il Sole del 2/7 scorso. Con un formidabile uno-due, da un lato una legge ha inserito nella Costituzione tedesca una clausola che obbliga dal 2016 il governo federale al pareggio di bilancio e, dall’altro, una sentenza della Corte Costituzionale ha sancito che la politica fiscale è materia degli stati nazionali e non può essere assolutamente soggetta a un coordinamento fiscale europeo. Nella Costituzione il pareggio di bilancio sostituisce una regola più soft, la famosa “golden rule”, per cui disavanzi erano permessi limitatamente al finanziamento di investimenti pubblici. La sentenza dell’alta Corte tedesca appare come una misura preventiva nei riguardi di ogni azione futura dell’Europa, magari presa a maggioranza, nella direzione di un coordinamento delle politiche fiscali (la sentenza della Corte, infatti, è di più ampia portata e volta a fissare dei paletti alle eventuali decisioni a maggioranza che l’UE potrebbe assumere una volta in vigore il trattato di Lisbona).
Un attento osservatore, Wolfgang Münchau fa notare l’unilateralismo nei confronti dei Trattati europei, che comunque considerano la politica economica come elemento di interesse comune, del passo tedesco. Le riflessioni di Munchau sono pienamente condivisibili:
Ms Merkel, who has persistently underestimated the extent of the crisis, has reached the inevitable point where complacency gives way to panic. She is presiding over one of the world’s sickest banking sectors[2]. German economic growth will shrink by some 5-6 % of GDP this year. And even now Germany’s policy establishment is frightened about rising budget deficits and inflation (…) Average Germans do not primarily regard debt in terms of its economic meaning, but as a moral issue. (…) The balanced budget constitutional law is therefore not about economics. It is a moral crusade, and it is the last thing, Germany, the eurozone and the world need right now (…) If my predictions prove correct, Germany will be down and out for a long time with a huge and still unresolved banking crisis, an overshooting exchange rate and lower net exports, presided over by politicians who panic about domestic inflation. This will not end well.
La Francia nel frattempo dichiara di voler adottare una strategia “alla Obama” di uscita dalla crisi a tutti i costi: ripeterà l’amara esperienza dei primi mesi del governo Mitterand nel 1981, quando l’adozione di politiche espansive in Francia a fronte di politiche deflative in Germania portò a un veloce deterioramento della bilancia commerciale francese e a un rapido allineamento alla linea tedesca?
[1] V. A.Baglioni, Se Trichet finanzia il debito pubblico, Lavoce.info, 22/7/09, e anche il mio commento in calce.
[2] Su questo punto, si veda quanto ha sostenuto Marcello De Cecco sul blog Goodwin box.
Questo articolo è stato pubblicato anche sul blog Goodwin box.