Dal punto di vista delle relazioni industriali, gli anni 2000 si sono aperti e sono destinati a concludersi all’insegna della rottura dell’unità sindacale. Il protocollo di riforma del modello contrattuale[1], firmato a gennaio scorso da Cisl-Uil, Confindustria e altre associazioni datoriali (Abi, Ania, Confapi), può forse essere considerato la conclusione di un processo che ha preso avvio all’inizio del decennio quando le confederazioni sindacali si divisero sul giudizio riservato al cosiddetto “Libro Bianco sul Lavoro” presentato dall’allora Ministro Maroni. In quella circostanza la divisione sindacale si concretizzò nel rifiuto della Cgil di sottoscrivere, nel 2002, il “Patto per l’Italia”, protocollo tripartito i cui esiti sono stati – ex-post – giudicati insoddisfacenti dalle stesse confederazioni sindacali firmatarie.
Allora come oggi una divisione di ordine strategico, formalizzata in un accordo interconfederale separato, ha poi prodotto conseguenze sui diversi livelli contrattuali, a cominciare da quello nazionale di categoria. La divisione sindacale del 2001-2002 ebbe come esito più eclatante il rinnovo separato del biennio economico dei metalmeccanici nel 2001, cui seguì – nel 2003 – l’accordo separato anche sulla parte normativa del contratto. Oggi non sono solo i metalmeccanici a dover fare i conti con un nuovo accordo separato sul biennio economico (firmato ad ottobre 2009), ma anche altre categorie – comprese quelle di forte tradizione unitaria come i chimici – stanno trattando il rinnovo del contratto sulla base di piattaforme distinte o hanno chiuso accordi separati (come è avvenuto nel 2008 per il commercio).
Tuttavia il settore metalmeccanico rimane quello in cui, nel corso del decennio, la divisione tra le organizzazioni sindacali è stata più aspra e meno episodica. Proprio in ragione di ciò, ed alla luce della settimana di mobilitazione promossa dalla Fiom tra il 9 ed il 13 novembre, è interessante indagare a quali esiti abbia condotto, nella quotidianità delle relazioni industriali sui luoghi di lavoro, la rottura dell’unità sindacale a livello centrale. La storia del decennio appena trascorso può aiutarci a immaginare gli scenari possibili dopo il rinnovo separato del biennio economico firmato lo scorso ottobre.
Per i metalmeccanici, infatti, il decennio prende avvio con un episodio “minore” ma anticipatore di quanto sarebbe accaduto di lì a poco a livello nazionale. Nel 2000, infatti, i tre sindacati di categoria dei meccanici raggiunsero un accordo sull’introduzione del lavoro a chiamata negli stabilimenti Elextrolux-Zanussi (azienda che all’epoca occupava circa 13.000 dipendenti distribuiti prevalentemente negli stabilimenti del nord-est). L’accordo, sottoposto a referendum, venne respinto dai lavoratori i quali giudicarono vessatorie le clausole di flessibilità e di disponibilità contenute nell’intesa. A quel punto la Fiom, interpretando come vincolante il parere dei lavoratori, decise di ritirare la firma dall’accordo e aprì così un contenzioso sull’utilizzo dello strumento referendum con le altre organizzazioni che ancora oggi non ha trovato composizione.
A quest’episodio seguì, un anno dopo, l’accordo tra Fim, Uilm e Federmeccanica per il rinnovo del biennio economico con il dissenso della Fiom che contestava l’entità dell’aumento e le modalità dell’erogazione. A fronte della firma separata la Fiom, dopo aver incassato il diniego di Fim e Uilm sulla proposta di un referendum approvativo, promosse autonomamente un referendum abrogativo che non condusse, però, alla revisione dell’accordo. Il deterioramento delle relazioni unitarie di categoria, aggravato dalla divisione delle confederazioni maturata nel frattempo, impedì – un anno dopo – la presentazione di una piattaforma unitaria per il rinnovo dell’intero CCNL intanto venuto a scadenza. È proprio nel 2003, infatti, che si consuma la divisione più importante e più gravida di conseguenze. La piattaforma presentata dalla Fiom si caratterizzava principalmente sui temi del mercato del lavoro (con l’introduzione del “tetto” del 18% di contratti atipici sul totale dei contratti in essere) e sulla democrazia (il punto qualificante è la richiesta del referendum vincolante sugli accordi firmati dai sindacati) rispecchiando il tenore del dibattito politico-sindacale di quei mesi (molto influenzato dall’approvazione del d.lgs 276/2003). Nonostante il successo ottenuto dalla piattaforma Fiom nei referendum aziendali, il contratto del 2003 verrà chiuso da Federmeccanica, Fim e Uilm sulla base della piattaforma presentata da queste ultime. La firma separata del contratto era destinata ad aprire una serie di contraddizioni e difficoltà sia nel fronte datoriale, sia in quello sindacale. Da parte datoriale, Federmeccanica, in cui pure l’orientamento prevalente in quel momento era quello più ostile alla Fiom, non se la sentì di chiudere la partecipazione dell’organizzazione non firmataria ad una serie di istituti (informazione e consultazione, convocazione di assemblee, tavoli contrattuali su orario e organizzazione del lavoro). Da parte sindacale la Fiom decise, non senza un dibattito interno rispetto ai “doppi regimi” – che porterà al congresso anticipato – di dare vita ad un’originale campagna di contrattazione decentrata in cui provare a recuperare, sulla base della propria piattaforma nazionale, il rapporto con la controparte e con gli altri sindacati. Ovunque possibile la Fiom stabilì di promuovere vertenze per l’approvazione, a livello aziendale, di “pre-contratti”[2] che integrassero, agli aumenti retributivi, gli aspetti normativi più cari all’organizzazione (i tetti per i contratti flessibili e la democrazia sindacale).
Le vertenze per i precontratti hanno fatto emergere una casistica assai variegata di conflitti aziendali e di micro-modelli di relazioni industriali nei luoghi di lavoro[3]. In alcuni casi, peraltro, le vertenze condussero ad accordi in tempi assai rapidi. E’ possibile leggere, in questi successi, la presenza di una divisione nel fronte datoriale con imprenditori che non sempre disposti a sposare in pieno la linea di scontro frontale adottata in quel momento da Federmeccanica sul terreno dei salari e dell’organizzazione del lavoro. Si trattava, quasi sempre, d’aziende in salute che, a fronte di una minaccia di sciopero o di blocco della produzione, per di più in una congiuntura non negativa del ciclo economico, avevano realmente qualcosa da perdere nel conflitto (Cominu e Tajani 2005).
Secondo i dati forniti dalla stessa Fiom, a novembre 2004 (un anno e mezzo dopo la firma dell’accordo separato) erano stati siglati 691 accordi su 2.326 vertenze aperte. A questi sono da aggiungere altri 320 accordi che si realizzarono su vertenze integrative (complessivamente 737) in alcuni casi avviate con piattaforme originali, in altri assorbendo le vertenze dei pre-contratti, a partire dalla primavera del 2004. Complessivamente, quindi, furono siglati 1.011 accordi aziendali coinvolgendo circa 350.000 metalmeccanici, su oltre 3.000 vertenze aperte, con quasi 800.000 metalmeccanici coinvolti.
Questi numeri, se da un lato inducono ad una globale valutazione sul successo dell’iniziativa della Fiom, dall’altro spingono ad interrogarsi sia sulle ragioni del “successo” (quali dinamiche si sono innescate nelle aziende dove l’accordo si è concluso positivamente?) sia su quelle dell’”insuccesso”, laddove la vertenza non ha avuto buon esito.
La distribuzione geografica delle vertenze, innanzi tutto, ci dice che le regioni dove furono aperte più vertenze e siglati più accordi sono, nell’ordine, Emilia Romagna (904 tra vertenze precontrattuali e integrative, per 406 accordi siglati), Lombardia (526 vertenze per 181 accordi) e Piemonte (590 vertenze per 129 accordi). In questa distribuzione appare evidente la presa dei precontratti nelle aree caratterizzate da specializzazioni produttive riferibili al comparto, ma anche di più solido radicamento sindacale. Non può sfuggire che le vertenze si conclusero più frequentemente con un accordo favorevole nel caso dell’Emilia Romagna, mentre in Piemonte, a fronte di un’ampia e diffusa vertenzialità, i casi di successo furono meno numerosi, circostanza che potrebbe essere in relazione alle conclamate difficoltà del tessuto economico di questa regione in anni in cui (siamo nel 2003-2004) la crisi della Fiat aveva raggiunto un punto che sembrava di non ritorno. Queste prime valutazioni, a loro volta, sono da porre in relazione al dato dimensionale medio delle aziende coinvolte: il rapporto tra lavoratori interessati e imprese ci dice che le vertenze si svolsero prevalentemente in realtà di 300-400 addetti, con punte dimensionali intorno ai 1.000 addetti e situazioni di PMI minori, di 100/150 addetti. Non ci furono lotte per i precontratti, in sostanza, nelle imprese più grandi che potevano assumere valore simbolico e favorire una diffusione ancora più capillare dei conflitti. In compenso, tantissime realtà intermedie, che rappresentano la vera ossatura del capitalismo industriale del nostro paese, furono toccate dalle vertenze dei precontratti.
Secondo la già citata ricerca (Cominu e Tajani 2005), condotta in diverse realtà produttive interessate dalle vertenze, gli obiettivi delle lotte non riguardarono solo i temi trasversali posti al centro della piattaforma “modello” dei precontratti (limitazione dei livelli di flessibilità, non applicazione della legge 30, miglioramenti salariali) ma diverse furono le situazioni in cui ai temi della piattaforma se ne affiancarono altri più “locali”. Dal punto di vista dei terreni di scontro, tuttavia, tutti gli intervistati nella ricerca citata concordavano nel considerare la questione salariale d’importanza minore rispetto al valore attribuito all’organizzazione del lavoro, alla gestione degli orari, ed al controllo sui livelli di flessibilità. In particolare fu la contrattazione dell’orario plurisettimanale il capitolo sul quale si accesero gli scontri maggiori, specie nelle realtà più piccole. E’ da osservare che, nella stessa Fiat Mirafiori, ci fu un ritorno di conflitto proprio in occasione del tentativo d’applicare la metrica dei tempi di lavoro individuali nota come TMC2 (Tempi dei movimenti collegati – seconda versione), laddove gli stessi operai avevano smesso di mobilitarsi contro la progressiva chiusura di linee ed il trasferimento dei modelli in altri siti.
Combinando gli aspetti inerenti al profilo tecnologico delle produzioni considerate, la composizione socio-professionale del lavoro e le caratteristiche dei conflitti dal punto di vista delle forme di lotta adottate, le mobilitazioni del ciclo 2003-2004 lasciarono emergere due modelli di conflitto e di sottostanti relazioni industriali. Nel primo modello si riconosceva una cultura della contrattazione più tradizionale, da vertenza classica, in cui il pre-contratto è occasione per ricucire i rapporti unitari abbandonati con sofferenza dai delegati. La concertazione nel complesso era vista come un valore. Si tratta di un modello “moderato”, i cui protagonisti si trovarono quasi costretti ad agire pratiche che forzavano la routine del confronto tra parti abituate a riconoscersi reciprocamente. Tale modello fu più diffuso in realtà industriali “consolidate”, la cui composizione tecnico-professionale era medio-alta e la struttura delle qualifiche meno appiattita sui livelli bassi, come in molti casi di vertenze aperte in Lombardia[4] (Cominu e Tajani 2005).
Da quel ciclo di lotte emerse, però, anche un secondo modello, evidente laddove gli stabilimenti impiegavano numeri elevati di donne e giovani, inquadrati in strutture di professionalità meno alte. In questi stabilimenti la cultura “della professionalità”, sovente anticamera dei processi d’identificazione con l’azienda, appare poco diffusa; fu qui che più facilmente le forme di lotta tracimarono, assumendo un volto più radicale ed il tema del recupero delle relazioni sindacali unitarie venne messo in secondo piano rispetto agli obiettivi concreti della vertenza.
Allora il ragionamento sulla radicalità delle pratiche conflittuali fu strettamente connesso a quello, già citato, della democrazia e della partecipazione alle decisioni. Il tema della democrazia, che tanta parte ancora oggi assume nelle piattaforme Fiom, si configurò allora anche come forma di controllo esercitata sui mezzi adoperati per ottenere gli obiettivi. Non si trattava solo di approvare o respingere gli accordi, ma più materialmente di decidere i passaggi concreti del conflitto. È bene però notare l’ambivalenza di alcune forme conflittuali (quali i blocchi stradali, assai diffusi in concomitanza del rinnovo contrattuale del 2008 e di quest’ultimo) che già allora cominciarono a praticarsi e che nelle vertenze degli ultimi mesi hanno visto diffusione maggiore. Se da un lato questo tipo di conflitto appare più “radicale” delle forme tradizionali (come lo sciopero o i cortei interni), dall’altro segnala una difficoltà di delegati e lavoratori a portare la lotta “dentro” il proprio posto di lavoro. Quasi che il confronto/scontro “generico”, che si manifesta con una protesta in strada, sia più semplice da sostenere rispetto a quello diretto verso la controparte aziendale per la quale prevale talora una logica di “reverenza”.
Nonostante l’indubbio successo della campagna dei precontratti, la criticità maggiore di quell’esperienza consistette, a detta degli stessi dirigenti e militanti sindacali che l’hanno vissuta, nella parzialità di queste mobilitazioni, incapaci all’atto pratico di porsi come terreno generale per il rilancio da una parte, della prospettiva politico-sindacale promossa dalla Fiom, dall’altro di un ragionamento più vasto sul futuro industriale del paese. È proprio per questo che il successivo rinnovo contrattuale, firmato nel 2008, ha visto uno sforzo straordinario della Fiom – ma anche di Fim e Uilm – nel cercare la piattaforma unitaria, prima, e la firma congiunta, dopo. Ed è proprio per questo che la nuova rottura sindacale rischia di ricondurre la Fiom nelle stesse secche del 2004.
Quello del 2008 è stato un contratto raggiunto faticosamente (dopo 18 mesi di trattativa) sulla base di una piattaforma sottoposta –come richiesto dalla Fiom- al voto dei lavoratori che però non è stato in grado di superare del tutto lo strappo del 2003. Non solo perché non è apparso ben chiaro all’inizio della trattativa quale contratto si stesse rinnovando (quello del 2003 o l’ultimo contratto unitario del 1999), ciò nonostante una sentenza del Tribunale di Monza riconoscesse l’ultrattività del contratto del 1999, ma anche perché quel contratto non è riuscito a sciogliere alcuni nodi strategici, primo tra tutti quello sul voto dei lavoratori rispetto alle ipotesi di accordo. Oggi, infatti, a fronte di un nuovo accordo separato sul biennio economico, la Fiom ha richiesto che l’accordo sia validato da un referendum tra i lavoratori. È importante notare, inoltre, che parallelamente all’accordo separato di ottobre 2009, Fim e Uilm hanno richiesto la disdetta dell’accordo unitario così faticosamente raggiunto nel 2008. Per tutta risposta la Fiom ha annunciato la disdetta del “patto di solidarietà” che consentiva da divisione tra le tre sigle confederali di un terzo dei seggi nelle elezioni delle Rsu (avvantaggiando di fatto le sigle meno rappresentative rispetto alla Fiom).
L’impasse attuale dei rapporti sindacali di categoria è solo in parte confrontabile con quella vissuta nel biennio 2003-2004. Altre variabili, infatti, concorrono a rendere la situazione sensibilmente differente: tra queste la crisi economica in cui la rottura si è consumata e la maggiore gravità della divisione tra le confederazioni sindacali rispetto a quella del 2002 (Patto per l’Italia). La prima rende difficile immaginare una nuova stagione di vertenze decentrate simili ai precontratti; la seconda inserisce lo strappo della Fiom nel contesto di una riflessione strategica più ampia, che coinvolge anche altre categorie in cui si stanno discutendo i rinnovi contrattuali su piattaforme distinte. Da una parte, quindi, la situazione è tale che è difficile immaginarne un’uscita senza un accordo tra le parti sulle regole democratiche. Queste devono essere lette non solo come l’applicazione di un giusto principio di democrazia nei luoghi di lavoro, ma come una via pragmatica di risoluzione delle controversie nelle relazioni industriali. Il rischio, altrimenti, è quello di un’ulteriore frammentazione normativa che darebbe vita a regimi plurimi e a ingiustificate discriminazioni all’interno dello stesso comparto contrattuale. Dall’altra, però, mai come questa volta le problematiche dei meccanici sono inserite in un contesto confederale più ampio e non rappresentano un’ “eccezione” nel panorama delle relazioni industriali. Sulla carta ci sono tutte le premesse perché il prossimo congresso della Cgil possa affrontare congiuntamente l’impasse dei meccanici e quella confederale, cogliendo un’occasione che non ha precedenti nell’ultimo decennio. Capiremo nelle prossime settimane se il dibattito interno alla Cgil si orienterà in questa o, come pare, in altra direzione.
* Ricercatrice, Università di Milano e Camera del Lavoro Metropolitana Milano