Nell’ultima riunione del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc), il 17 dicembre scorso, Arabia Saudita, Kuwait e Qatar (che controllano circa il 45% delle riserve mondiali di petrolio e il 25% di quelle di gas), a cui si è aggiunto l’arcipelago del Bahrein, hanno deciso di avviare la prima fase[1] per la costituzione di una unione monetaria che dovrebbe portare in breve tempo all’emissione di una nuova moneta, il Gulf, con l’obiettivo annunciato di sganciarsi definitivamente dall’uso del dollaro[2] per gli scambi petroliferi e costituire una nuova moneta di riserva sotto il loro diretto controllo. Tra il 2007 e il 2008, infatti, la tendenza del dollaro a svalutarsi ha colpito innanzitutto i paesi esportatori di petrolio riducendo le loro entrate in termini reali, determinando forti pressioni inflazionistiche favorite anche dal continuo incremento della domanda interna nella regione.
Se il progetto di moneta comune dei paesi del Golfo si realizzasse, il dollaro potrebbe questa volta seriamente temere di perdere il suo ruolo centrale[3]. Il Gulf si presenterebbe sul mercato con la caratteristica di una moneta di riserva molto più credibile del dollaro (e del suo concorrente euro), in quanto il suo valore sarebbe garantito, anche se indirettamente, dal petrolio, perché di fatto il fondamento fiduciario della nuova moneta andrebbe a cadere sull’unica ricchezza posseduta dai paesi della penisola arabica che è costituita dalle ingenti riserve petrolifere. Il Gulf sarebbe poi facilmente immesso nel circuito monetario internazionale attraverso le transazioni tra i paesi petroliferi e il resto del mondo. La nuova moneta diventerebbe un bene rifugio per molti paesi emergenti, che da anni si vogliono svincolare dalla divisa americana considerata da tempo non più completamente affidabile. Insomma, a differenza dell’euro e dello yen che non sono stati in grado di ridurre sensibilmente il dominio del dollaro[4], il Gulf potrebbe avere maggiori potenzialità proprio per il suo legame con le immense ricchezze petrolifere gestite dai paesi emittenti, che fornirebbero una garanzia ben più solida di quella che le politiche monetarie degli Usa e dell’area euro possono offrire[5].
Appena varato il Gulf, tutti gli ingenti surplus commerciali dei paesi del Golfo detenuti in dollari potrebbero essere rapidamente convertiti e questo determinerebbe il crollo della valuta americana sul mercato con effetti che tutti possono immaginare. Il sistema monetario troverebbe a questo punto un nuovo centro di gravità nei paesi esportatori di petrolio, a cui sarebbe affidato un potere enorme non solo come detentori delle riserve energetiche essenziali, ma anche come emittenti di una nuova moneta riserva di valore internazionale. La moneta comune del Golfo potrebbe essere addirittura utilizzata fin dall’inizio come àncora (peg) per stabilizzare il livello dei prezzi di dei paesi importatori di petrolio che hanno una dimensione trascurabile nel commercio mondiale.
L’iniziativa dei paesi del Golfo si inserisce in un progetto più ampio diretto, nonostante le diplomatiche smentite ufficiali, alla definitiva sostituzione del dollaro come moneta internazionale di riserva. In questo contesto la crisi, cronica ormai, del dollaro potrebbe consolidare il progetto, largamente condiviso soprattutto dai pesi emergenti[6], di un ritorno ad un regime monetario internazionale fondato sull’uso di monete merci.
Un disegno questo che incontra innanzitutto il favore dei paesi islamici che da tempo sostengono addirittura la necessità di un ritorno al gold standard non solo per ragioni legate alla difesa del potere d’acquisto, ma anche per questioni religiose, in quanto per la legge islamica (sharia) è immorale ogni forma di guadagno non legata direttamente alle attività produttive, come sono le entrate provenienti dall’uso speculativo delle ingenti riserve in dollari dei paesi arabi produttori di petrolio. Da più parti nel mondo islamico si preme per la reintroduzione del dinaro aureo, antica moneta araba coniata per ben 13 secoli, fino al crollo dell’Impero Ottomano. Passi concreti in questa direzione li ha già compiuti il premier della Malesia, Mahathir, con l’obiettivo di sganciarsi dalla dipendenza del dollaro e dalle restrizioni imposte dal Fondo Monetario Internazionale dopo la crisi del 1998, coniando nel 2001 una moneta aurea (Kijang Emas) e proponendola, senza successo, ai paesi della lega araba come nuovo standard.
In questa direzione si muovono da tempo anche autorevoli economisti, come il premio Nobel Robert Mundell, che ha proposto l’istituzione di una nuova moneta internazionale, l’Intor, che dovrebbe essere ancorata per il 50% del suo valore all’oro e per l’altro 50% alle monete più forti, dollaro, yen, euro in primo luogo (in prospettiva un ruolo determinante dovrebbe ricoprire la nuova moneta dei paesi del Golfo)[7]. La proposta di Mundell non è isolata: dal 1971 influenti economisti sostengono la necessità di un ritorno a regimi monetari fondati sul ruolo centrale dell’oro come ancora garante della stabilità (ricordiamo tra questi le posizioni esplicitamente favorevoli al regime aureo di Barro e di Greenspan, e la propaganda a favore dell’oro di molti esponenti della scuola austriaca del von Mises Institute). Insomma vi sono precisi segnali che indicano il disegno, più o meno consapevole, di ritornare a sistemi basati su commodity standard, considerati come lo strumento più idoneo per garantire la stabilità monetaria internazionale.
Ma non ci si ferma all’oro: il progetto di istituire una moneta internazionale garantita direttamente dalle riserve petrolifere, nella sostanza un petroleum standard (o in altri termini un energy-based currency) è stata esplicitamente avanzata al secondo South American-Arab League Summit del marzo 2009, dal presidente venezuelano Hugo Chavez. La nuova moneta, denominata Petro, dovrebbe, nelle intenzioni del presidente venezuelano, proporsi esplicitamente come una nuova commodity money internazionale garantita dalle riserve petrolifere, con l’obiettivo annunciato di superare l’instabilità sistemica che ha caratterizzato l’ultimo quarantennio di regime di moneta fiduciaria[8].
Particolare risalto ha avuto in questi anni il progetto di una nuova moneta internazionale proposto nel 2001 dall’economista belga Bernard A. Lietaer, in The Future of Money: Beyond Greed and Scarcity. La nuova moneta, che Liataer chiama Terra, dovrebbe essere basata su un paniere composto dalle dodici più importanti merci commerciate a livello mondiale e caratterizzate da una relativa stabilità di valore. La nuova moneta dovrebbe essere emessa dalla Terra Alliance, una associazione di iniziativa privata e non governativa, un ente finanziato dai paesi produttori di petrolio con l’investimento dei loro surplus e sarebbe poi immessa nel circuito monetario internazionale attraverso le transazioni tra i paesi petroliferi e il resto del mondo.
Ma chi ha un po’ di familiarità con la storia monetaria non può lasciarsi sedurre dal mito della moneta merce come meccanismo infallibile in grado di assicurare automaticamente la stabilità dei prezzi interni ed internazionali. Questa stabilità si ha solo a condizione che l’offerta di moneta merce sia sempre in proporzione con le variazioni di produttività di tutte le altre merci, sia insomma dotata di una elasticità di offerta tale da evitare sia spinte deflazionistiche (aumento del prezzo relativo della moneta merce rispetto alle altre merci e ristagno dei mezzi di pagamento), sia fiammate inflazionistiche (diminuzione del prezzo relativo della moneta merce rispetto alle altre merci). Le fluttuazioni dei prezzi sarebbero quindi sempre esogenamente determinate in base alle variazioni del prezzo mondiale della moneta merce e quindi politicamente non controllabili. Del resto il sistema del commodity standard, così come la vicenda storica ha dimostrato, tende a creare forti asimmetrie tra i paesi. Sono avvantaggiati innanzitutto i paesi che hanno un maggior peso nel commercio internazionale e che accumulano crescenti surplus, mentre sono del tutto svantaggiati i paesi in deficit o che rivestono un ruolo marginale nel commercio mondiale. La probabile tesaurizzazione delle riserve[9] porterebbe poi ad un ristagno dei mezzi di pagamento internazionale e a pressioni deflazionistiche che sopporterebbero prevalentemente i paesi in deficit, costretti ad adottare politiche di riduzione dei redditi interni per poter ristabilire il loro equilibrio esterno. La maggiore stabilità assicurata da forme di commodity money è quindi solo un’illusione.
La strada per evitare il ritorno al barbarico relitto della moneta merce passa attraverso una riforma politica del sistema monetario mondiale che sia diretta al potenziamento di strumenti di liquidità internazionale, come i diritti speciali di prelievo, sotto il controllo di una autorità sovranazionale come il Fondo Monetario Internazionale, che dovrebbe essere opportunamente riformato per dare maggior peso ai paesi emergenti. L’uso di tali strumenti insieme a meccanismi istituzionali che tendano a controllare i movimenti di capitali darebbero al sistema monetario internazionale una maggiore possibilità di governo politico degli squilibri (così come aveva intuito Keynes negli anni Quaranta e Triffin negli anni Sessanta), assicurando, attraverso forme di intervento condivise, una maggiore stabilità. E’ questa la direzione che le autorità monetarie cinesi hanno già realisticamente indicato[10] e che è stata raccolta molto limitatamente nel vertice di Pittsburg del settembre scorso. Sul tema della riforma del sistema monetario internazionale gli interessi delle forze democratiche[11], in primo luogo quelle dell’Occidente, dovrebbero convergere sulla proposta cinese di internazionalizzazione delle riserve per evitare che emergano drastiche soluzioni della crisi del dollaro che finiscano “per gettare via il bambino insieme all’acqua sporca”. Il dollaro potrebbe essere la vittima più illustre di questa crisi, ma il definitivo tramonto della divisa americana per una crisi di fiducia potrebbe facilitare il ritorno a tecnologie di pagamento basate su merci, inasprendo le asimmetrie e le rigidità del sistema dei pagamenti internazionali. Gli stessi Usa potrebbero essere spinti per difendere la loro moneta a ripristinare il dollaro convertibile[12], tentazione che nei circoli politici e finanziari di Washington e Wall Street è stata sempre molto viva.