Sabato 15 ottobre 2011 all’età di 81 anni è venuto a mancare Pierangelo Garegnani, il maggiore economista teorico italiano degli ultimi cinquant’anni, figura di assoluto rilievo internazionale che ha contribuito come nessun altro a chiarire, portare avanti ed estendere il progetto avviato da Piero Sraffa di riabilitazione dell’impostazione teorica classica (o, come Garegnani anche la chiamava, impostazione del ‘sovrappiù’). Si tratta dell’impostazione in sede di teoria del valore e della distribuzione del reddito che nella sua struttura fondamentale accomuna i Fisiocratici, Adam Smith, Ricardo e Marx, e che venne abbandonata nell’ultimo quarto del 19° secolo in favore dell’impostazione ‘marginale’ (detta anche ‘della domanda e offerta’, o neoclassica come impropriamente oggi spesso la si definisce), anche per via della maggiore capacità di questa seconda impostazione di offrire argomenti a difesa del capitalismo a fronte della crescente protesta operaia.
In effetti, come messo in luce da molti studi di storia del pensiero economico, fin da poco dopo la morte di Ricardo (1823) era iniziata la ricerca di teorie dell’origine dei profitti che ne fornissero una giustificazione capace di opporsi alla tesi, derivabile dalle analisi degli stessi Adam Smith e Ricardo, che i profitti scaturiscono dalla maggior forza contrattuale dei capitalisti rispetto ai lavoratori salariati (la quale permette di imporre ai lavoratori di lavorare più di quanto basterebbe a produrre i loro salari), ed hanno dunque una origine analoga a quella del reddito dei signori feudali, derivante dal monopolio della terra che permetteva di imporre ai servi della gleba le corvées: da cui l’accusa di sfruttamento del lavoro come vera origine dei profitti. La pericolosità dell’impostazione classica per la struttura di classe dell’epoca emerge bene in un brano del 1831 di Scrope, il quale, riferendosi a Ricardo e ai suoi seguaci, scriveva: “Sicuramente la pubblicazione di opinioni … che, se anche fossero vere, poiché sconvolgono i principi fondamentali della simpatia e dell’interesse comune che costituiscono il cemento della società, non potrebbero essere che profondamente dannose, costituisce un crimine […]. Nella loro teoria della rendita, essi hanno insistito che i proprietari fondiari possono prosperare solo a danno di tutti gli altri, e in particolare dei capitalisti; nella loro teoria dei profitti essi hanno dichiarato che i capitalisti possono migliorare la loro situazione solo a danno della numerosa classe dei lavoratori; nella loro teoria dei salari essi hanno sostenuto che la condizione dei lavoratori può essere migliorata solo privandoli della gioia di essere mariti e padri […]. In ciascuno dei loro argomenti essi si sono sforzati di mostrare che gli interessi di ciascuna classe della società sono necessariamente in perpetua opposizione con quelli di ogni altra classe!”.
Con la nascita di un aperto conflitto di classe tra capitale e lavoro salariato dopo il 1830, il bisogno di confutare tale prospettiva si intensifica; come scrisse Marx, scompaiono i brillanti tornei tra economisti dell’epoca di Ricardo, e resta posto solo per i “pugilatori a pagamento”. Ma negli anni dopo il 1870, tramite una generalizzazione della teoria della rendita differenziale, si arriva ad una struttura analitica apparentemente difendibile: si sostiene che non solo il fitto della terra è rendita differenziale, ma in un certo senso lo sono anche i profitti del capitale e i salari del lavoro: ciascuna di queste tre fonti di reddito rifletterebbe infatti il contributo al margine alla produzione di ciascuna unità del rispettivo ‘fattore produttivo’, contributo denominato ‘produttività marginale’, misurato dall’aumento di produzione dovuto all’aggiunta di quella unità, o equivalentemente da quanto diminuirebbe la produzione se quella unità del ‘fattore’ considerato venisse ritirata dalla produzione: l’imprenditore avrà infatti convenienza a aumentare l’impiego di ciascun ‘fattore produttivo’ se l’aumento di ricavo derivato dall’aumento di produzione causato da una unità in più del ‘fattore’ risulta maggiore dell’aumento di costo dovuto al dover pagare quella unità di fattore in più, e si fermerà solo quando l’aumento di ricavo (che via via diminuisce perché, sostiene questa teoria, la produttività marginale di un fattore via via diminuisce se l’impiego del fattore aumenta) e aumento di costo diventano uguali. Ne discende che i lavoratori ricevono quanto contribuiscono al margine alla produzione, giacché se un lavoratore smettesse di lavorare la produzione diminuirebbe, e per un valore esattamente uguale al suo salario. Analogamente, il capitalista riceve dei profitti perché i suoi atti di rinuncia al consumo, dunque il suo risparmio, hanno permesso la creazione di capitale, e ciascuna unità di capitale se fosse ritirata dalla produzione la farebbe diminuire di un ammontare di valore pari al tasso di profitto, che dunque riflette il contributo dei ‘sacrifici’ del capitalista-risparmiatore alla produzione. Redditi da lavoro e redditi da capitale finiscono così per riflettere entrambi il contributo al margine alla produzione dei proprietari dei rispettivi fattori produttivi, contributo derivante rispettivamente dal sacrificio di lavorare e da quello di astenersi dal consumo, e diventa molto più difficile argomentare che i profitti derivino dallo sfruttamento di una classe su un’altra.
Nel determinare in base alla scarsità relativa dei fattori della produzione le remunerazioni di lavoro, terra e capitale, l’impostazione marginalista aveva anche un’altra implicazione rilevante rispetto alle crescenti rivendicazioni e proteste delle organizzazioni dei lavoratori. In base alla produttività marginale decrescente (e ad altri meccanismi di sostituzione tra beni e fattori in cui qui non posso entrare), in essa si ricavano curve di domanda dei fattori produttivi decrescenti rispetto ai rispettivi saggi di remunerazione. Ne deriva che la domanda di lavoro da parte delle imprese è funzione decrescente del salario, cosicchè, se i sindacati strappano aumenti salariali, ciò, a parità di altre circostanze, non potrà che portare ad una diminuzione della domanda di lavoro, e dunque ad un aumento della disoccupazione. Quest’ultima origina quindi secondo la teoria ‘marginale’ da attriti o rigidità che impediscono alle forze della domanda e dell’offerta di operare liberamente, ed il modo per eliminare la disoccupazione è che si accetti e si verifichi una diminuzione dei salari.
Questa impostazione teorica, che ha avuto un impatto ideologico enorme ancora sottovalutato e ha pesantemente influenzato anche la sociologia, è quella ancora oggi in varie forme più diffusa, e sta dietro le giustificazioni teoriche delle politiche economiche adottate negli ultimi trentacinque anni nei paesi avanzati, che hanno favorito l’enorme redistribuzione di reddito a sfavore dei lavoratori. Invece i risultati analitici da lui raggiunti nella tesi di dottorato completata a Cambridge nel 1958 portavano Garegnani a concludere, controcorrente, che questa impostazione ‘marginale’ è analiticamente erronea, basata su una trattazione indifendibile del capitale, e che invece l’impostazione dei classici e di Marx era stata abbandonata prematuramente, in quanto i suoi difetti in sede di teoria del valore e del saggio di profitto, difetti legati all’adozione della teoria del valore-lavoro, sono correggibili senza che ne risulti snaturato il complessivo impianto teorico. Raggiunte queste conclusioni (che convergevano con quelle di Piero Sraffa in Produzione di merci a mezzo di merci, che però nel 1958 Garegnani non conosceva ancora), egli ha da quel momento sostenuto con rigorose argomentazioni analitiche che è dunque quella classica l’impostazione che un economista serio, scientificamente motivato, dovrebbe preferire, senza timore delle implicazioni politiche che ne possano derivare: se ne emergerà confermata una ingiustizia e inefficienza del sistema capitalistico, bisognerà cercare di diminuirle e correggerle, piuttosto che cercare di occultarle.
La superiorità scientifica dell’impostazione classica è stata confermata a Garegnani dai risultati di Sraffa in Produzione di merci, in particolare Garegnani ha integrato le sue precedenti critiche all’impostazione marginale/neoclassica nelle sue versioni tradizionali con ulteriori critiche basate sulla possibilità di ‘ritorno delle tecniche’ messa in luce da Sraffa, e ha applicato queste critiche alla teoria dell’investimento con il risultato di una critica della legge di Say e di una importante difesa del contributo di Keynes; più di recente ha ulteriormente contribuito alla critica dell’impostazione neoclassica sottolineando gli enormi difetti delle sue versioni recenti in termini di equilibri temporanei e intertemporali. Questi suoi contributi critici sono quelli che lo hanno reso più noto a livello internazionale, ma forse alla lunga anche più importanti si riveleranno i suoi contributi alla ricostruzione della teoria economica; questi includono importanti scritti di chiarimento dell’impostazione classica e di Marx, fraintesa per decenni anche dalla maggior parte dei marxisti, e contributi (che hanno aperto la strada a un filone di ricerche molto attivo) in cui ha mostrato che si può utilmente integrare l’impostazione classica quanto a teoria del valore e della distribuzione del reddito, con il principio keynesiano della domanda effettiva (cioè il ruolo fondamentale della domanda aggregata nella determinazione di occupazione e produzione) per la spiegazione della crescita economica. Il rigore e la profondità delle sue argomentazioni sono stati internazionalmente riconosciuti e lo hanno fatto universalmente considerare il caposcuola dell’impostazione talvolta detta ‘sraffiana’ ma che è più corretto chiamare, per quanto appena detto, classica-keynesiana. Nell’attesa di analisi più aggiornate e dettagliate della sua opera, mi sia permesso rinviare alla mia voce “Pierangelo Garegnani” in P. Arestis, M. Sawyer, A Biographical Dictionary of Dissenting Economists (Edward Elgar, I ed. 1992, II ed. 2000) per una illustrazione sintetica dei suoi contributi fino al 1992. Dei suoi contributi successivi, suggerirei in particolare ai lettori la lettura dei lunghi saggi, molto illuminanti, con cui Garegnani ha continuato nell’opera di chiarimento delle differenze tra impostazione classica e neoclassica, confutando i fraintendimenti di Blaug e di Samuelson (rispettivamente in History of Political Economy, 2002, e in European Journal of the History of Economic Thought, 2007). Una parte considerevole delle sue energie negli ultimi quindici anni è stata assorbita dal tentativo di ulteriori critiche alle versioni contemporanee dell’impostazione marginale/neoclassica, che ha portato a complessi saggi molto recenti ancora oggetto di dibattito. Altre sue energie sono andate al riordino dei manoscritti di Sraffa (il quale alla sua morte nel 1983 lo aveva prescelto come suo esecutore letterario), e all’avvio di un importante lavoro collettivo di esame di tali manoscritti che dovrebbe risultare a breve nella pubblicazione di una loro selezione. Desidero infine ricordare che nonostante l’immensa mole di lavoro di ricerca, egli ha trovato il tempo per aiutare numerosi economisti più giovani a orientarsi nella teoria economica, e siamo in molti a essergli enormemente grati per questo; diversi di questi suoi allievi collaborano ora a portare avanti le attività della Fondazione Centro Sraffa che Garegnani ha creato come punto di riferimento per chi fosse interessato a contribuire allo sviluppo dell’impostazione classica-keynesiana.
Per motivi di spazio mi limito a due brevi indicazioni di elementi centrali della prospettiva non neoclassica sul funzionamento delle economie di mercato che Garegnani ha contribuito a sviluppare e che più possono interessare i lettori di questa rivista. In primo luogo, egli ha evidenziato la grande flessibilità della produzione: questa si adegua alla domanda, e dunque anche a livello aggregato è in grado di aumentare anche di molto se la domanda aggregata aumenta; per cui sarà generalmente perfettamente possibile aumentare sia gli investimenti che i consumi, cioè non è vero che bisogna ridurre i consumi per accelerare la crescita economica; né bisogna che i salari diminuiscano affinché occupazione e produzione aumentino, perché la flessibilità della produzione e in particolare delle industrie che producono beni capitali permette di aumentare la produzione, allo stesso tempo producendo i beni capitali necessari a impiegare lavoratori in più allo stesso salario o anche a un salario superiore (questo è un altro modo di mostrare l’insostenibilità della curva neoclassica decrescente di domanda di lavoro). Inversamente, se la domanda aggregata cala si ha perdita di produzione e di accumulazione potenziale, che a differenza della disoccupazione è poco visibile perché è un non venire in essere di produzioni possibili, ma su periodi lunghi può comportare differenze enormi nel grado di sviluppo di un’economia e nella sua capacità di dare lavoro a tutti. I suoi allievi si stanno ora battendo affinché tale prospettiva venga riconosciuta corretta dai responsabili della politica economica e porti a politiche più efficaci contro la disoccupazione e per risolvere il problema del debito pubblico italiano.
Il secondo elemento che può interessare i lettori di questa rivista è lo sviluppo da parte di Garegnani della tesi di Michail Kalecki che l’occupazione, dipendendo dalla domanda aggregata, dipende in larga misura da decisioni politiche, che possono benissimo essere a favore di un aumento della disoccupazione, per ‘mantenere al loro posto’ i lavoratori salariati. In un lavoro uscito sulla Rivista del Manifesto (n. 48, marzo 2004), scritto assieme a T. Cavalieri e M. Lucii, Garegnani applica tale prospettiva ad una critica della posizione (di Bowles e altri marxisti) che spiega l’alto tasso di crescita della produzione e dei salari nelle economie avanzate negli anni 1946-1972 come dovuto ad una convergenza di interessi tra capitalisti (interessati a un’alta domanda aggregata che permetta di sfruttare appieno gli impianti) e lavoratori. L’articolo sostiene che invece tale alto tasso di crescita e la contemporanea creazione del Welfare State sono stati un episodio eccezionale nella storia del capitalismo, concesso controvoglia dalle classi dominanti, timorose della forza dei lavoratori e dell’attrattiva esercitata su di essi dal comunismo; il successivo rallentamento della crescita economica viene visto come un tipico caso di disoccupazione volutamente ricreata per indebolire le classi lavoratrici e riportare il capitalismo a una situazione per esso (e cioè, per le classi dominanti) più ‘sana’.
Con Garegnani scompare una delle menti più acute e meno conformiste dell’economia contemporanea. Con energia e coraggio egli ha perseguito lo sviluppo di tesi controcorrente e con implicazioni politiche che certamente non gli rendevano facile ottenere ampi appoggi. Ma il rigore e la profondità delle sue argomentazioni hanno reso inevitabile una loro crescente accettazione, e il grande rispetto anche dei suoi avversari scientifici.
Garegnani ha continuato a lavorare intensamente fino all’ultimo, e lascia alcuni lavori incompiuti o non pubblicati (ad esempio uno, in collaborazione con il sottoscritto, su Marx e alcuni sviluppi recenti dell’economia marxista), e probabilmente altri ne giacciono tra le sue carte. E’ auspicabile che questi lavori siano resi pubblici il prima possibile, e siano rieditati e tradotti i suoi lavori diventati difficilmente reperibili o non disponibili in inglese.
*Professore ordinario nell’università di Siena