In pochi dubitano che il modello delle relazioni industriali del nostro Paese sia in crisi. Il punto è come uscirne, se spingendo ancora sulle leve della decentralizzazione contrattuale e della flessibilità, come chiedono la Fiat e l’intera Confindustria, ovvero se conservando il peso del contratto nazionale e irrobustendo le tutele del mondo del lavoro, come vorrebbero la Cgil e in particolare la Fiom che, a questo proposito, ha indetto la manifestazione nazionale del 16 ottobre.
Le ragioni dei sostenitori della decentralizzazione e della flessibilità vertono sulle esigenze di competitività del sistema produttivo nazionale. La tesi di fondo è che se le istituzioni del mercato del lavoro non si metteranno al passo con le trasformazioni dell’economia globalizzata, la dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto delle imprese italiane si appesantirà ulteriormente rispetto ai competitor stranieri. Con effetti deleteri, tanto sugli equilibri della bilancia commerciale quanto sui livelli di occupazione. Si tratta di argomentazioni note, che godono di sostegno nella letteratura internazionale, e che hanno ispirato in Italia e in genere nei paesi industrializzati le politiche del lavoro, negli ultimi due decenni almeno.
Tuttavia, sarebbe auspicabile che i responsabili della politica economica e la stessa Confindustria provassero a guardare al di là delle tensioni sviluppatesi in questi mesi, e a prendere sul serio le tesi della Fiom e degli altri sostenitori del contratto nazionale e delle tutele.
Una prima serie di argomentazioni di questi ultimi concerne il nesso tra flessibilità e produttività del lavoro. A riguardo, l’unica certezza di cui disponiamo è che la crescita della produttività del lavoro in Italia è andata molto al rilento rispetto ai nostri principali concorrenti[1]. Sulle motivazioni di ciò possono essere avanzate tesi diverse. Incluse quelle che tendono a spiegare la piatta dinamica della produttività italiana con fattori quali la bassa dimensione media delle imprese, il volume contenuto degli investimenti in nuove tecnologie, il ridotto grado di infrastrutturazione del territorio[2]. E se la bassa produttività delle nostre imprese dipendesse effettivamente da questi fattori, agire sulla contrattazione non costituirebbe certo la via maestra per risolvere il problema. Piuttosto, occorrerebbe evocare nuove e incisive politiche industriali.
A queste argomentazioni i sostenitori della decentralizzazione contrattuale e della flessibilità replicano osservando che una revisione dei meccanismi della contrattazione salariale potrebbe contribuire a legare maggiormente la dinamica dei salari alla produttività, e quindi per questa via a salvaguardare la competitività. Tuttavia, sugli effetti benefici della flessibilità sono state avanzate a più riprese numerose perplessità. E a riguardo è opportuno sviluppare alcune considerazioni di ampio respiro.
Per cominciare, occorre osservare che l’aumento della flessibilità, e in generale la deregolamentazione del mercato del lavoro, abbattono gli indici di protezione del lavoro[3]. Ed è bene chiarire che le ricerche a disposizione tendono a negare l’esistenza di una relazione significativa tra la contrazione degli indici di protezione del lavoro e l’occupazione[4]. In breve, non abbiamo prova che la sempre maggiore flessibilità del mercato del lavoro registrata negli ultimi lustri in Italia e in Europa abbia avuto successo nell’incrementare i livelli di attività dell’economia e dunque anche l’occupazione.
Viceversa, sembra emergere una correlazione tra la contrazione degli indici di protezione del lavoro e l’andamento dei salari reali. Più precisamente, stando ad alcuni studi, le politiche di flessibilità e deregolamentazione del mercato del lavoro spiegherebbero in buona misura la drastica caduta della quota dei salari sul prodotto interno lordo registrata negli ultimi decenni in Italia e in Europa (in media poco meno di dieci punti percentuali negli ultimi trenta anni)[5]. Una tesi questa che è stata recentemente confermata persino dal Fondo Monetario Internazionale (IMF) nel documento The Challenges of Growth, Employment and Social Cohesion, presentato a metà settembre ad Oslo, insieme all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO). Infatti, nel documento la caduta della quota dei salari reali viene spiegata con le “pressioni della globalizzazione”, che avrebbero “incrementato la vulnerabilità dei lavoratori attraverso aumenti dell’intensità del lavoro, la diffusione di contratti più flessibili, la diminuzione delle protezioni sociali e un declino del potere contrattuale dei lavoratori”[6].
Molto più che sulla occupazione, la caduta degli indici di protezione del lavoro avrebbe dunque influito sulla quota dei salari nel Pil. E ciò, secondo una parte della letteratura scientifica contemporanea, costituisce un fattore recessivo non trascurabile. Ad esempio, la recente “Lettera degli economisti” contro le politiche restrittive in Europa, sottoscritta da oltre 250 studiosi, ha avanzato l’ipotesi che uno dei fattori di fondo della crisi – al di là delle variabili strettamente congiunturali – potrebbe essere la tendenza di lungo periodo alla contrazione della quota dei salari sul Pil. Da questo fattore, infatti, viene fatta dipendere la scarsa dinamica della domanda complessiva di merci e servizi che, nell’insieme delle economie industrializzate, non avrebbe retto il ritmo di crescita dell’offerta potenziale delle imprese.
È ben noto che la letteratura tradizionale ha sempre sostenuto la tesi opposta, e cioè che il contenimento dei salari favorisca la crescita della produzione e dell’occupazione. Ancora una volta, la questione è molto controversa. La letteratura scientifica ha tentato di dipanare la matassa e una serie di ricerche si sono cimentate nello stimare l’impatto della riduzione della quota dei salari nel reddito nazionale su tutte le componenti della domanda aggregata, per i diversi paesi. Viene fuori che quando la quota dei salari si riduce, la domanda di beni di consumo si comprime, mentre in senso opposto tendono a muoversi soprattutto le esportazioni, a seguito degli effetti favorevoli che la “moderazione” salariale può avere sulla competitività. In generale, tuttavia, non senza risultati contrastanti, questi studi lasciano ben pochi spazi di ragione alla tesi tradizionale, e piuttosto tendono ad confermare l’idea che la riduzione della quota salariale effettivamente abbatta la domanda aggregata, con ripercussioni negative sui livelli di produzione e occupazione[7].
Il numero di coloro che pensano che la flessibilità e la deregolamentazione abbiano generato un ruolo recessivo si allarga sempre più, anche al livello internazionale. Nello studio del FMI e dell’ILO già citato, ad esempio, si legge che la crisi in atto è conseguenza dell’“ampiezza della caduta della domanda aggregata”. E questa, a sua volta, viene fatta dipendere “dalla diminuzione della quota dei salari nel reddito nazionale”, considerata una delle “cause delle crisi passate e presenti”[8]. Certo, le ricerche non mettono a disposizione risultati definitivi, e ulteriori verifiche sono in corso con riferimento all’Italia e all’UE. Ma c’è evidentemente tanta materia per guardare con scetticismo a ulteriori iniezioni di flessibilità nel mercato del lavoro e decidersi a prendere sul serio le ragioni dei critici.