Le promesse di ripresa dell’Eurozona per il 2014 non si sono materializzate, come i più avveduti si attendevano[1], mentre hanno preso concretezza quelle di deflazione. Durante il 2014 Draghi aveva ripetutamente annunciato misure più drastiche per sostenere l’Eurozona. Il 22 gennaio scorso ha annunciato il tanto atteso Quantitative Easing (QE) consistente in un piano di acquisti di titoli pubblici dell’Eurozona per 60 miliardi al mese sino (almeno) al settembre 2016.
La domanda di Draghi
Il Presidente della BCE è infatti da tempo perfettamente consapevole della natura vera dei problemi, come rivelato in un importante discorso tenuto a Jackson Hole nel settembre 2014 (Draghi 2014). In quel discorso egli sottolineò come il rischio di fare troppo per sostenere la domanda aggregata fosse assai minore di quello di fare troppo poco. Naturalmente tale perorazione fu accompagnata da quella alle riforme strutturali, ma questo era scontato. Più importante fu la denuncia della “crescita troppo lenta dei salari nei paesi non in crisi ciò che suggerisce una crescita fiacca della domanda” e degli spazi esistenti per la politica di bilancio laddove v’è un sostegno istituzionale della banca centrale, come negli Stati Uniti e in Giappone. Draghi denunciò nei fatti che l’aggravamento della crisi europea è stato dovuto ai vincoli posti all’azione della BCE che a loro volta hanno impedito l’intervento della politica fiscale a sostegno della domanda aggregata. Qualcuno ha detto che, infatti, quando Draghi si trova negli USA davanti ai suoi antichi maestri parla un’altra lingua
Le misure adottate dalla BCE nell’estate del 2014 sono risultate in parte “dietro la curva”, come si usa dire, in quanto solo nel settembre il tasso “ufficiale” (tecnicamente quello sulle operazioni di rifinanziamento marginale) è stato portato praticamente a zero; in parte sono risultate in linea con misure precedenti di offerta di liquidità alle banche, come con la nuova tornata di Operazioni di rifinanziamento a più lungo termine (LTRO); in parte sono da inquadrarsi verso un timido avvio di QE come la nuova tornata di acquisto di obbligazioni bancarie (Covered Bonds) e di titoli bancari cartolarizzati (Asset Backed Securities). Le aste dell’autunno 2014 hanno rivelato una richiesta delle banche inferiore alla disponibilità, segno che evidentemente il mercato non soffre di scarsa liquidità – le banche avevano peraltro attivamente restituito durante l’anno buona parte dei fondi delle vecchie tornate di LTRO prima della scadenza.
Quantitative che?
Impossibilitato a svolgere una politica monetaria accomodante di supporto a una politica fiscale espansiva, il cosiddetto Quantitative Easing appare a molti come l’ultima chance di Draghi per sostenere la domanda aggregata. Esso ha tuttavia avuto effetti discutibili persino negli Stati Uniti, dove è stato adottato in tre riprese sin dal 2008 accompagnato, a differenza dell’esperienza europea, da politiche fiscali espansive e comunque non da politiche di austerità.
Il QE è una modalità con cui la banca centrale espande di sua iniziativa la liquidità del sistema acquistando titoli a lungo termine, fondamentalmente pubblici, ma anche privati, diminuendo così i tassi di interesse (reali) a lungo termine. Mentre con le operazioni di rifinanziamento poste in essere dalla BCE essa agisce in maniera passiva, vale a dire lasciando al sistema bancario la decisione di quanta liquidità assorbire, col QE essa agisce in maniera attiva accrescendo il proprio attivo di titoli e immettendo liquidità (non solo verso le banche ma verso l’insieme dei detentori di titoli finanziari), forzando l’obiettivo di ritornare alla dimensione di bilancio del 2012, secondo l’intento di Draghi (Constancio 2014). Ma a quale scopo?
L’obiettivo è quello di sostenere la domanda aggregata. Gli effetti immediati sono di accrescere il valore dei titoli, diminuire il tasso di interesse di lungo periodo e accrescere la liquidità a disposizione del sistema. La diminuzione dei tassi a lunga sarebbe rafforzata dalla promessa di mantenere i tassi a breve a zero contenuta nella “forward guidance”, l’impegno assunto dalla BCE dal luglio 2013 di mantenere i tassi di interesse a breve termine a livelli bassi. L’aumento del valore dei titoli si avrebbe anche per l’”effetto portafoglio”: i soggetti che cedono titoli alla BCE, trovandosi con eccesso di liquidità, non potrebbero far altro che comprarne degli altri. Poiché la banca centrale acquisterebbe direttamente soprattutto titoli di stato,l’effetto portafoglio si svolgerebbe essenzialmente attraverso la trasmissione dell’aumento del prezzo dei titoli di Stato ai segmenti privati del mercato finanziario. Da questi primi effetti ne dovrebbero scaturire diversi altri relativi alla domanda aggregata.
1) Un primo presunto risultato è quello di stimolare la creazione di credito fornendo alle banche extra-riserve, un effetto palesemente in discredito in quanto l’ammontare di credito offerto dal sistema bancario non è vincolato dall’ammontare di riserve disponibili – come abbiamo appreso dalla lezione di Augusto Graziani – e queste, peraltro, già non soffrono di carenza di liquidità.
2) Un secondo obiettivo è di stimolare gli investimenti. Questo effetto è basato sull’idea neoclassica che, dato il “rendimento marginale del capitale” (un concetto analitico con cui gli economisti ortodossi spiegano il saggio del profitto), una diminuzione del saggio di interesse a lungo termine sotto il rendimento marginale del capitale induca un aumento degli investimenti. Poiché l’aumento del valore dei titoli – inclusi dunque azioni e obbligazioni industriali – determina una diminuzione del loro rendimento, se ne dedurebbe che le imprese potrebbero vantaggiosamente finanziare nuovi investimenti a tassi di interesse a lungo termine inferiori al (dato) rendimento marginale o tasso di profitto atteso da questi investimenti. Che una diminuzione dei tassi di interesse a lunga stimoli gli investimenti, per giunta con attese di domanda negative, è fermamente respinto dalla lezione di Sraffa e Garegnani oltre che dalle risultanze empiriche.
3) Un terzo obiettivo è quello sui consumi, stimolati da effetti ricchezza, ma l’aumento della ricchezza finanziaria ha probabilmente più effetti negli Stati Uniti dove è più diffusa, che in Europa (Muellbauer, 2014). La crescita dei valori mobiliari sembra inoltre favorire soprattutto i ceti più affluenti con una minore propensione al consumo, avendo così anche sgradevoli affetti redistributivi.
4) Seguendo la expectation view (Odendhal 2014) il QE è soprattutto volto a trasmettere a famiglie e imprese l’idea che la BC è assolutamente determinata a combattere la recessione inducendo così aspettative di inflazione. La BCE potrebbe per esempio fissare un obiettivo di inflazione assicurando la continuazione del QE fin quando esso non fosse raggiunto, e questo ha nei fatti assicurato Draghi il 22 gennaio. La diffusione dell’idea che più liquidità porta più inflazione, corroborata accademicamente dal monetarismo, fa da sponda all’opera di convincimento verso il pubblico. L’argomento è tuttavia molto fragile: l’inflazione effettivamente aumenterà solo se i soggetti credono che aumenterà, accrescendo la propria spesa in maniera sufficiente da farla aumentare. Gli operatori devono essere dunque molto fiduciosi nella credibilità inflazionistica di banche centrali che per anni hanno cercato di costruirsi una reputazione opposta; ma pure ammesso che le aspettative di inflazione aumentino, i soggetti devono espandere la spesa in una situazione in cui stanno aggiustando i propri bilanci (balance sheet recession, Koo 2014) e vivono una caduta dei propri redditi. Un aumento delle aspettative di inflazione difficilmente si tradurrà in un aumento cospicuo della spesa e dunque in un aumento dell’inflazione effettiva.[2]
Sulla base di questi primi quattro presunti effetti, il QE appare dunque in Europa un po’ come un segno di disperazione. Un bravo economista della BCE, Ulrich Bindseil (2004: 41), scriveva anni fa a proposito del primo QE effettuato dalla BoJ nel 2001 che “although it may be unclear how exactly an excess reserves target is supposed to help a country escape from deflationary trap, it at least seems unlikely to do any harm”, un segno di disperazione più che altro. Riferendosi all’esperienza giapponese del 2001, Koo ha descritto il QE come il “greatest monetary non-event” del 21esimo secolo (citato da Johnston e Pugh 2014: 7).
Due altri possibili effetti
Vi sono due altri possibili effetti positivi del QE.
5) Il primo è il deprezzamento della valuta: l’eccesso di liquidità nel portafoglio dei soggetti si rivolgerà infatti anche verso titoli stranieri sicché la maggiore domanda di divisa estera necessaria per acquistare quei titoli determinerà un deprezzamento della divisa nazionale. Questo suona però come un comportamento irresponsabile: in luogo di rilanciare la domanda interna e sostenere la domanda mondiale, e già in presenza di un enorme surplus commerciale verso il resto del mondo, l’Europa scaricherebbe le proprie difficoltà sulle altre regioni, in particolare sugli Stati Uniti.
6) L’altro effetto sarebbe la messa in sicurezza di una quota dei debiti sovrani. Si deve qui distinguere se l’acquisto è in via temporanea – vale a dire i titoli pubblici sono tenuti solo fino a scadenza – o permanente – a scadenza l’acquisto viene reiterato. Solo nel secondo caso il debito pubblico è nei fatti cancellato in via definitiva, in quanto la banca centrale girerebbe i proventi del servizio del debito al Tesoro in quella che è una partita di giro (v. De Grauwe e Ji, 2013). Per come illustrato da Draghi il 22 gennaio gli acquisti sono in via temporanea e, inoltre, il rischio relativo è per l’80% lasciato alle Banche Centrali Nazionali che effettueranno, pro-quota a seconda della partecipazione al capitale della BCE, il piano d’acquisto.
E’ quest’ultimo un aspetto su cui si sono più concentrati i commenti, e pour cause. Nel caso, per esempio, che il Portogallo decidesse una ristrutturazione del proprio debito non pagandone, per dire, un terzo, la Banca Centrale del Portogallo subirebbe una perdita di un terzo del valore dei titoli acquistati pur continuando ad essere debitrice verso la BCE (tecnicamente verso l’Eurosistema) degli euro ricevuti a fronte dell’acquisto di quei titoli. A coprire la perdita è chiamato lo Stato portoghese che, guarda un po’, ha appena fatto default. Un pasticcio, insomma (i dettagli sono ben spiegati da Wolff 2015). Germania e satelliti hanno così voluto impedire una responsabilità in solido dell’Eurozona che troppo avrebbe evocato gli Eurobond.[3] Questo non è piaciuto ai mercati.
Queste considerazioni ci inducono a un certo scetticismo nei confronti del QE. Diverso sarebbe il caso se il QE avesse affiancato una politica di bilancio espansiva, in particolare nei paesi fiscalmente più solidi. Ma questo non sembra proprio all’orizzonte.
Riferimenti bibliografici
Bindseil, U. (2004) Monetary Policy Implementation. Theory-Past-Present, Oxford: Oxford University Press.
Seth B. Carpenter, S.B. and Selva Demiralp, S. (2010), Money, Reserves, and the Transmission of Monetary Policy: Does the Money Multiplier Exist?, Finance and Economics Discussion Series: 2010-41 Screen Reader version.
Constâncio, V. (2014) A new phase of the ECB’s monetary policy, speech
at the “ECB’s workshop on non-standard monetary policy measures”, Frankfurt am Main, 6 October.
Coppola, F. (2013), QE myths and the Expectations Fairy
De Grauwe, P. e Ji, Y. (2013), Fiscal implications of the ECB’s bond-buying programme, Vox.
Draghi, M. (2014), Unemployment in the euro area, speech at the
Annual central bank symposium in Jackson Hole, 22 August.
Johnston, A. e Pough, T. (2014)The Law and Economics ofQuantitativeEasing, Sheffield Institute of Corporate and Commercial Law, Working paper series, July.
Koo, R.C. (2014), The Escape from Balance Sheet Recession and the QE Trap: A Hazardous Road for the World Economy, Wiley; Chapter 1.
Muellbauer, J. (2014), Combatting Eurozone deflation: QE for the people, Vox.
Odendhal, C. (2014), Quantitative easing alone will not do the trick, CER
Wolff, G.B. (2014), Sovereign QE and national central banks.