Certamente Timothy Geithner, il Ministro del Tesoro degli Stati Uniti, impegnato nel primo viaggio ufficiale in Cina, non si aspettava la reazione del pubblico, composto in gran parte da studenti, riunito all’Università di Pechino in occasione del suo primo discorso, lunedì 1° giugno: alla sua affermazione che gli assets, quasi totalmente titoli del debito pubblico americano, oggi in mano cinese sono totalmente al sicuro, l’uditorio ha risposto con una sonora risata.
Come si spiega la scarsa serietà con cui sono state accolte le parole del ministro del Tesoro della superpotenza mondiale?
La Cina è il maggior detentore estero di titoli del debito pubblico USA (a marzo il valore ammontava a 768 miliardi di dollari, ma alcuni analisti parlano di 900 miliardi di dollari, altri di cifre maggiori). E oggi più che mai l’amministrazione Obama, che affida ad un forte impegno in una politica fiscale espansiva il piano di salvataggio dell’economia americana, ha bisogno della “fiducia” cinese, per contribuire a finanziare i propri programmi di spesa in deficit (deficit che, secondo le previsioni, sfiorerà il 13% del PIL nel 2009), tenendo contemporaneamente a freno ogni eventuale pressione al rialzo sui tassi di interesse. Queste pressioni, a quanto risulta negli ultimi giorni, sono presenti, nonostante la politica di monetizzazione messa in atto dalla FED che, sotto l’etichetta di “quantitative easing”, si è impegnata in una campagna di acquisto senza precedenti di titoli del Tesoro per 300 miliardi di dollari (ma c’è chi pensa che questo tetto dovrà essere innalzato, se si vorranno tenere bassi i tassi d’interesse e centrare per questa via l’obiettivo di stimolare l’economia).
Mentre negli USA ferve tra gli economisti un aspro dibattito sulle conseguenze di tale mix di politiche monetarie e fiscali espansive, con i Keynesiani da un lato e i moderni epigoni della “Treasury View” dall’altro, la Cina – prosaicamente- si trova nella scomoda posizione di sedere su una montagna di assets – titoli del debito pubblico USA, come si è detto- il cui valore dipende in ampia misura dalle sue proprie azioni: se essa decidesse di disfarsene, avviando massicce vendite, il contraccolpo sulla valuta statunitense sarebbe fortissimo, e altrettanto forte sarebbe il contraccolpo sul valore dello stock di titoli del Tesoro americano in mano cinese che, comprati a suo tempo a caro prezzo con un dollaro forte, sarebbero ora “carta straccia”, deprezzata in termini delle altre valute. Senza contare che un tale rifiuto di detenere- e ampliare, come chiede Geithner- il proprio stock di titoli del debito USA equivarrebbe ad un rifiuto di lanciare una ciambella di salvataggio al mercato americano di cui la Cina, dopo tanti anni di simbiosi, ha ancora bisogno come mercato di sbocco per le proprie esportazioni. Se, al contrario, la Cina decidesse di continuare a detenere e acquistare i Treasury bonds e i Treasury bills, le chance di una ripresa dell’economia americana sarebbero rafforzate, ma sarebbero finanziate, in continuità con quanto è avvenuto nel recente passato, grazie alla destinazione americana di ingenti flussi di risorse sottratte ai consumi e al welfare della popolazione cinese.
Perché la Cina ha inizialmente accumulato quella montagna di titoli USA, che oggi si presenta come un’arma a doppio taglio nelle sue mani? La ragione di fondo sta nel ruolo del dollaro come moneta internazionale: in breve, di “valuta chiave”. Il dollaro USA è la moneta in cui vengono effettuati i pagamenti internazionali e la valuta di riserva. Le Banche Centrali accumulano riserve per far fronte ai pagamenti internazionali, ma sempre più frequentemente anche come assicurazione contro il rischio di repentini deflussi di capitali speculativi, soprattutto dopo la lezione delle crisi finanziarie nei paesi asiatici alla fine degli anni ’90. Inoltre, un Paese può accumulare riserve in dollari a fini di competitività, cioè per impedire l’apprezzamento della propria valuta rispetto al dollaro. Queste motivazioni stanno dietro la decisione della Cina e di altri paesi (Giappone, Paesi esportatori di petrolio, Brasile….) di detenere montagne di dollari USA.
Questa vasta “artificiale” domanda internazionale di dollari conferisce al Paese “chiave” una serie di privilegi (per una analisi più approfondita, e un piano alternativo, leggi un mio articolo qui): tra questi, il beneficio del “signoraggio” e l’allentamento del vincolo estero, che “morde” in maniera molto soft: basterà “stampare” più dollari per far fronte a qualunque difficoltà nei pagamenti internazionali (“deficit senza lacrime”, li definiva De Gaulle). L’altro straordinario vantaggio è che i dollari che escono per pagare le importazioni tornano sotto forma di capitali, dal momento che le Banche Centrali estere, piuttosto che detenerli infruttiferi nei propri forzieri, preferiscono razionalmente investirli, tipicamente in titoli del debito USA. L’ulteriore, finale vantaggio è che, quando la montagna del debito estero diventa troppo grande, il deprezzamento del dollaro può provvedere, provvidenzialmente, a ridurne il valore….(provate a immaginare invece le conseguenze disastrose per qualunque altro Paese indebitato in dollari, quando la propria valuta si deprezza rispetto al dollaro…).
Per questo Geithner ha tenuto a rassicurare la Cina sull’impegno degli USA “ad un dollaro forte”, con il risultato che abbiamo visto all’inizio. Ma, nonostante l’ilarità degli studenti cinesi, la preoccupazione espressa qualche mese fa dal Premier cinese Wen Jabao, e la ventilata ipotesi di sostituire al dollaro i Diritti Speciali di Prelievo del FMI, è improbabile che la Cina diversifichi molto le proprie riserve, specie in questa fase di crisi. Ne fa fede per esempio la dichiarazione di Mr Luo, direttore generale della China Banking Regulatori Commission: “Mr. Luo, whose English tends toward the colloquial, added: ‘We hate you guys. Once you start issuing $1 trillion-$2 trillion [$1,000bn-$2,000bn] . . .we know the dollar is going to depreciate, so we hate you guys but there is nothing much we can do.’ (Financial Times, 11 febbraio 2009).
Il circuito internazionale del dollaro funziona insomma come una grande pompa, che succhia merci e capitali dai Paesi che entrano con gli USA in un rapporto di simbiosi. L’euro dava appena due o tre anni fa forti segnali di poter diventare una valuta di riserva alternativa. Ma la crisi, con il grande fabbisogno del Tesoro USA per rimettere in moto la “locomotiva” del mondo, sposterà probabilmente –a meno di cataclismi impensabili- la domanda nuovamente a vantaggio del dollaro.
*Professore ordinario di Macroeconomia ed Economia del lavoro nell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.