Nonostante l’esperienza di 6 anni di crisi e le molte false promesse da parte dei governi che si sono succeduti non sembra vi sia ancora piena consapevolezza nel dibattito politico della gravità della situazione e della inadeguatezza delle politiche economiche proposte in piena continuità con le passate e fallimentari ricette. Questo anche nella sinistra che da anni è puntello, per forza o per amore, di queste politiche.
Nel recente DEF si ammette che la crescita italiana sarà assai debole nel 2014 (punto otto si dice, per evitare di anteporre la parola zero), peccando probabilmente di qualche ottimismo. Le previsioni per gli anni successivi sono più rassicuranti (si sale dall’1,3% del 2015 all’1,9% del 2018), ma la giustificazione economica di tanto ottimismo è ridotta al balbettio di una paginetta in cui non si dimostra da dove tale ripresa dovrebbe provenire – a parte il generico richiamo a una generale ripresa dell’economia globale. Né grandi rassicurazioni provengono dagli effetti delle “riforme strutturali” illustrati nell’allegato Piano Nazionale di Riforme che in un crescendo rossiniano mostra effetti cumulativi sul Pil in aggiunta allo “scenario base” che vanno dal +0,8% nel 2015 sino al +2,4% nel 2018. Le stime degli effetti delle “riforme” sono ottenute con metodi piuttosto opinabili e nella maggior parte dei casi le passate previsioni sono state non solo smentite, ma rovesciate come dimostrato da un prezioso e certosino lavoro condotto da Maurizio Zenezini dell’Università di Trieste pubblicato da Economia e società regionale (13/2 2013), una rivista legata all’IRES-CGIL veneta, dedicato a “Le riforme e l’illusione della crescita”. Che riforme di impronta liberista generino risultati sistematicamente deludenti non è sorprendente in quanto generalmente volte a deprimere i salari, la domanda aggregata e la spinta delle imprese a innovare, o semplicemente perché attribuiscono i mali dell’economia italiana a feticci come il carico burocratico, pur importanti, ma non decisivi. Quando si attribuisce un effetto cumulato sulla crescita al 2018 di quasi un punto percentuale di Pil ciascuno a “liberalizzazioni e semplificazioni” e al “Jobs Act” siamo alla fede nella cabala. Sorprende di più la credulità mostrata dai mass-media con cui vengono sistematicamente accolte le previsioni di ripresa quando anche l’Ocse ammette il sistematico errore di sopravvalutazione (ma guarda un po’ ) commesso negli anni recenti. Modelli in cui vengono trascurati il ruolo della domanda aggregata e l’effetto nefasto delle “riforme”, oltre al desiderio di compiacere i governi (a pensar male non si sbaglia), soggiacciono a questi sistematici errori. Si osservi che anche se il DEF 2014 considera una forchetta del +/- 0,5% nelle proprie stime di crescita, non abbiamo dubbi che rebus sic stantibus, vale a dire senza un radicale ribaltamento delle politiche di austerità, persino la previsione più negativa sia fuori dalla nostra portata.
In questo quadro nessuno prende troppo sul serio la prescrizione del Fiscal Compact della riduzione dal 2015 del rapporto fra debito pubblico e Pil dal prossimo anno a colpi di un ventesimo all’anno della quota eccedente il 60% (anche se i fantasiosi estensori del DEF e altri come Bini-Smaghi danno a intendere che questo sia alla nostra portata, si veda Piga al riguardo). Diversi economisti (per esempio qui) hanno denunciato l’insostenibilità sociale degli avanzi primari (al netto della spesa per interessi) necessari a realizzare quell’obiettivo pur assumendo tassi di crescita positivi. La situazione potrebbe essere persino peggiore una volta che si tenga più pienamente conto degli effetti negativi di quegli avanzi sulla crescita. Un economista autorevole come Mario Nuti ha al riguardo dimostrato come con moltiplicatori fiscali superiori all’inverso del rapporto debito pubblico/Pil – una situazione molto probabile in paesi ad elevato debito – politiche di consolidamento fiscale, dunque surplus primari, avranno l’effetto di peggiorare il rapporto debito/Pil. Questo proprio perché gli effetti negativi sul Pil (il denominatore) sono maggiori di quelli “positivi” sul debito (il numeratore), come peraltro suggerisce l’esperienza italiana di questi anni. (La dimostrazione, peraltro semplicissima, si è avvalsa della consulenza di un economista matematico d’eccezione come Giancarlo Gandolfo.) Il Fiscal Compact è dunque non solo inapplicabile per la ferocia sociale che implicherebbe, ma è senza senso persino dal punto di vista dell’obiettivo che si pone. Ma anche se inapplicato, purtuttavia esso rimarrà come un monito a mantenere comunque le politiche di austerità tanto più che, in via di principio, la sua violazione porta a sanzioni automatiche e qualunque paese europeo potrebbe irrigidirsi in merito.
Reagendo a questo quadro, politici ed economisti di sinistra hanno chiesto che il paese violi gli obiettivi di bilancio, come peraltro viene concesso a Francia e Spagna, mentre altri (si veda qui e qui) hanno lodevolmente denunciato come basti poco alla Commissione per togliere la giustificazione del ciclo negativo alle eventuali violazioni (anche se dalla sua la Commissione ha il fatto innegabile che con la distruzione di capacità produttiva una quota crescente della disoccupazione diventa da ciclica a strutturale). L’intera politica di bilancio europea andrebbe in realtà capovolta vincolando, nel breve periodo, i saldi alla ripresa della crescita e dell’occupazione e non a “stupide” regole, come le definì Prodi, anche se ciò comportasse un temporaneo aumento del rapporto debito/Pil. In luogo del fiscal compact, la politica di bilancio dovrebbe essere tuttavia ancorata all’obiettivo di medio periodo della stabilizzazione del rapporto debito/Pil, un’idea ispirata da Luigi Pasinetti, ripresa dall’Appello degli economisti del 2006 e poi dal Documento degli economisti del 2011. Nel medio periodo, infatti, la ripresa della crescita, accompagnata da un’azione efficace della BCE intesa a far scendere di più i tassi sul debito pubblico dei paesi “periferici”[1] o da piani volti a ristrutturare i debiti pubblici con il medesimo obiettivo (come il piano Wyplosz), disavanzi pubblici primari e dunque politiche espansive sarebbero compatibili con la stabilizzazione del suddetto rapporto.[2] Sono idee ragionevoli che l’Italia dovrebbe far proprie nel semestre di presidenza dell’UE.
La situazione sociale si sta facendo sempre più grave, anche se spesso in maniera sottile. Il tessuto sociale regge per la resilienza di milioni di redditi da lavoro dipendente e autonomo e pensioni che riescono ad assicurare l’esistenza a milioni di disoccupati, inoccupati, esodati e cassintegrati e relative famiglie di ogni fascia di età. Ma questa base reddituale si andrà col tempo erodendo proprio per effetto delle politiche di “consolidamento fiscale”, e con essa decenni di sviluppo civile del Paese. La sinistra non solo è stata connivente con queste politiche, ma le ha gestite. Chi governa non si illuda, potrà ammaliare l’opinione pubblica per un po’, ma non per molto a lungo.