«Macelleria sociale è una espressione rozza ma efficace: io credo che gli evasori fiscali siano i primi responsabili della macelleria sociale». Di queste parole non vi è traccia nel testo ufficiale delle considerazioni del governatore della Banca d’Italia presentate ieri all’assemblea annuale dell’istituto. Draghi infatti le ha pronunciate a braccio, smarcandosi per un attimo dall’abituale, morigerato linguaggio di Palazzo Koch. C’è da scommettere che i commentatori dedicheranno grande attenzione a questo colpo di teatro del governatore. A ben guardare tuttavia la dichiarazione si rivela politicamente vaga, dal momento che Draghi evita di citare gli interventi che anziché ridurre gli evasori ne hanno favorito in questi anni la proliferazione. Basti pensare che egli conferisce al governo Berlusconi il merito di aver adottato «misure di contrasto all’evasione fiscale» e non accenna invece agli effetti d’incentivo all’evasione che sono scaturiti da numerosi provvedimenti dell’esecutivo, tra i quali spicca il condono di fatto sui capitali rimpatriati.
Il principale punto critico delle considerazioni del governatore non risiede però nella paludata valutazione dell’operato del governo italiano. Il vero problema verte sulla scelta di assolvere completamente la Germania riguardo alle cause della gravissima crisi della zona euro. A questo riguardo il governatore riconosce che l’attuale instabilità della Unione monetaria europea è alimentata dai marcati squilibri nei rapporti di credito e debito tra i suoi paesi membri. Draghi tuttavia si guarda bene dal chiarire che questi squilibri sono in larga misura dovuti alla politica iper-competitiva e ultra-restrittiva della Germania, da tempo orientata a schiacciare i salari e la spesa interna in modo da reprimere le importazioni di merci dall’estero, e a favorire invece la penetrazione delle merci tedesche nei mercati dell’eurozona. Attraverso questo sistematico eccesso di vendite sugli acquisti la Germania accumula crediti verso l’estero. Essa quindi non contribuisce allo sviluppo economico europeo, ma anzi paradossalmente si fa trainare dai paesi più deboli dell’unione monetaria, tra i quali spiccano la Grecia, la Spagna, il Portogallo, la stessa Francia. Persino l’Italia, nonostante una crescita modestissima del reddito nazionale, si ritrova ad acquistare dai tedeschi più di quanto vende, accumulando per questa via debiti crescenti verso la Germania.
E’ significativo che Draghi non accenni a questo enorme problema, che da tempo mina alle fondamenta l’intero progetto di unificazione europea. Quando si tratta di analizzare la crisi a livello globale, egli dichiara senza mezzi termini che per uscirne sarebbe necessaria «una forte espansione della domanda interna da parte dei paesi che hanno accumulato ampi avanzi esterni», e cioè soprattutto da parte della Cina[1]. Tuttavia, quando passa ad esaminare il quadro europeo, il governatore preferisce ripetere diligentemente il verbo delle autorità tedesche, affermando che tocca solo ai paesi debitori farsi carico del riequilibrio, attraverso strette alla spesa pubblica, contenimenti dei salari, aumenti della età pensionabile e ulteriori riduzioni delle tutele dei lavoratori. Il governatore arriva persino a sostenere che «l’impegno a raggiungere un saldo di bilancio strutturale in pareggio o in avanzo va reso cogente, introducendo sanzioni, anche politiche, in caso di inadempienze». In altre parole, chi non si adegua alla linea indicata dai tedeschi dovrà perdere il diritto di voto in Europa. Al pari di Padoa Schioppa e di Bini Smaghi, anche Draghi sembra dunque improvvisamente desideroso di concorrere al titolo di banchiere più “falco” dell’Unione. A voler esser tendenziosi, potremmo avanzare il sospetto che tutto questo sgomitare a favore della politica restrittiva si spieghi con la scadenza del mandato di Trichet, e con la volontà di ingraziarsi i tedeschi in vista della prossima nomina del nuovo governatore della Banca centrale europea. Ma se anche non si volesse cedere alla tentazione di pensar male, resterebbe da capire in che modo un simile orientamento possa ritenersi compatibile con i fondamentali interessi economici dell’Italia, degli altri paesi periferici e in fin dei conti della intera Unione europea. A questo riguardo lo stesso Draghi riconosce che nel 2009 si è verificato un boom dei fallimenti tra le imprese italiane, pari a un quarto in più rispetto all’anno precedente. Si tratta di un dato allarmante, che accomuna l’Italia agli altri paesi deboli dell’Unione. Esso sta ad indicare che la crisi non solo colpisce i lavoratori ma mette anche fuori mercato moltissime imprese situate nelle aree periferiche del continente. Di certo la notizia verrà accolta con favore dagli imprenditori tedeschi che contano di uscire vincenti dalla crisi, con meno sindacato e meno concorrenza estera a intralciarli. Le rappresentanze politiche del capitale tedesco sembrano in sostanza disposte a concepire l’Europa solo nei termini di una Germania allargata, che basi la sua strategia di sviluppo esclusivamente sulla competitività e sulle esportazioni nel resto del mondo. In base a questa visione, i paesi periferici dell’Unione dovrebbero progressivamente ridursi al rango di fornitori di manodopera a basso costo, o al limite di azionisti di minoranza in uno scacchiere capitalistico a stretto controllo tedesco. In effetti, fino a quando c’erano i boom speculativi della finanza statunitense a trainare l’economia mondiale l’idea di una “grande Germania” votata all’export poteva avere una sua pur feroce logica. Adesso però che la locomotiva americana si è inceppata tale progetto risulta estremamente azzardato. Esso infatti crea le condizioni per un avvitamento generale della crisi, che potrebbe scatenare una deflazione da debiti paragonabile a quella degli anni Trenta. Se ciò avvenisse l’intero progetto dell’unità europea crollerebbe. E la principale responsabilità di un simile fallimento sarebbe da imputare non tanto alle spese eccessive di Grecia e Spagna, quanto piuttosto alla politica economica tedesca e ai suoi sostenitori, tra cui purtroppo diversi italiani.
Quasi a volersi difendere da una simile accusa, Draghi prova a chiudere le sue considerazioni con una nota di ottimismo sui presunti benefici dell’austerità: «Nel 1992 affrontammo una crisi di bilancio ben più seria di quella che hanno oggi davanti alcuni paesi europei. Il Governo dell’epoca presentò un piano di rientro che, condiviso dal Paese, fu creduto dai mercati. Fu una lotta lunga […] ma fu vinta, perché i governi che seguirono mantennero la disciplina di bilancio: la stabilità era entrata nella cultura del Paese». Un piano creduto dai mercati? Il governatore non la racconta giusta. In realtà le tremende strette ai salari, alle pensioni e al bilancio pubblico di quell’anno accentuarono la depressione del reddito nazionale e quindi sollevarono dubbi crescenti sulla capacità di rimborso dei debiti. Esse dunque non frenarono la speculazione ma anzi la alimentarono, favorendo in tal modo l’uscita dell’Italia dal Sistema monetario europeo e la conseguente svalutazione della lira. I lavoratori pagarono così due volte: prima a causa della politica di austerità e poi a causa della perdita di potere d’acquisto della lira. A quanto pare si sta facendo di tutto affinché la storia si ripeta, in termini forse ancor più violenti che in passato. Una resistenza consapevole a questo andazzo si pratica in primo luogo acquisendo coscienza del fatto che l’austerità non costituisce un antidoto sicuro contro la deflazione da debiti e la speculazione, ma anzi potrebbe a date condizioni favorirle.