Ci sono molti buoni motivi per proporre la democrazia industriale.
Dodici paesi dell’Unione Europea, soprattutto nell’area renana (Germania, Austria, Olanda, Lussemburgo) e scandinava (Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia), adottano già per legge sistemi avanzati di corporate governance basati sulla codeterminazione. Uno studio comparativo dell’European Trade Union Institute[1], (il centro di ricerca e formazione della Confederazione dei Sindacati Europei) sui 27 Paesi della UE dimostra che questi 12 paesi hanno livelli di performance – per quanto riguarda la crescita del PIL, dell’occupazione (anche per età e genere), della produttività, degli investimenti per la ricerca e per le energie rinnovabili, ecc. – migliori degli altri 15 paesi che, come l’Italia, hanno invece adottato il modello anglosassone di corporate governance. Un altro studio condotto sulle aziende tedesche quotate in borsa[2] dimostra che in Germania le società che hanno adottato il sistema della cogestione (Mitbestimmung) hanno performance migliori di quelle ancorate al modello anglosassone, e che quindi non prevedono forme di partecipazione dei lavoratori nei board delle imprese[3].
Recentemente il giornalista economico Vittorio Malagutti si è recato a Wolfsburg, Germania del Nord, per fornire un’analisi aggiornata sul campo della situazione della Volkswagen, confrontata con quella della Fiat[4]. La società dell’auto tedesca – che una ventina di anni fa versava in condizioni analoghe a quella della Fiat – ha macinato ricavi per 159 miliardi di euro, quasi tre volte Fiat-Chrysler, con profitti per 15,8 miliardi, più che raddoppiati rispetto al 2010. “Dalla immensa fabbrica di Wolfsburg escono 800mila auto all’anno, circa 100mila più di quanto produce in totale la Fiat nei suoi cinque impianti italiani…negli anni scorsi il gruppo tedesco è riuscito a delocalizzare la produzione, dal Messico alla Cina via Slovacchia, senza tagliare un posto di lavoro in Germania…. La paga base di un operaio si aggira, al netto di tasse e contributi, sui 2700 euro, ma con qualche ora di straordinario è facile arrivare a quota 3mila. In altre parole, a Wolfsburg il lavoro alla catena di montaggio è pagato all’incirca il doppio rispetto a Mirafiori o nelle altre fabbriche Fiat. … tutto si muove esattamente nella direzione opposta a quella indicata da Sergio Marchionne alla Fiat…qui il sindacato è forte, fortissimo. La IG Metall, a cui è iscritto il 95% circa degli operai di Wolfsburg, partecipa a ogni singola scelta aziendale…. C’è il consiglio di fabbrica: 65 delegati in rappresentanza di tutti i reparti. E poi, al vertice del gruppo, il sindacato nomina la metà dei 20 membri del consiglio di sorveglianza, l’organo di controllo sulla gestione…. Una garanzia su tutte: fino al 2014 l’organico dei stabilimenti tedeschi non potrà diminuire. In cambio, ormai da otto anni tutti i nuovi assunti lavorano 35 ore settimanali invece delle 33 degli operai con maggiore anzianità… I dipendenti dei sei stabilimenti tedeschi di Volkswagen si sono appena visti riconoscere un bonus di 7500 euro, calcolato sulla base dello straordinario aumento dei profitti del gruppo…. … Il gruppo tedesco naviga nell’oro e può permettersi di finanziare agevolmente investimenti per oltre il 5% del fatturato. In altre parole il denaro guadagnato non viene accumulato in cassaforte sotto forma di liquidità, come fa Marchionne ormai da anni….Regolazione minuziosa di ogni aspetto della vita aziendale contro deregulation; condivisione, invece di verticismo autoritario: questa, in breve, è la ricetta della cogestione, la Mitbestimmung che ha fatto grande l’industria tedesca e continua, pur tra mille difficoltà, a produrre profitti e benessere”[5].
Gli studi e le analisi sono chiare, e dimostrano che occorre esaminare con attenzione, ovviamente critica e accorta ma senza provincialismi, la questione cruciale della democrazia industriale: la quale invece purtroppo in Italia è ancora ignorata o sottovalutata perfino dalla migliore cultura economica, politica e sindacale.
Luciano Gallino ha scritto uno dei libri[6] più interessanti e approfonditi sulle cause strutturali della drammatica crisi attuale, originata dal predominio rapace della finanza iperspeculativa sull’economia e dalla crescente divaricazione dei redditi da lavoro e da capitale. Per Gallino la democratizzazione dell’economia potrebbe passare (anche se lui stesso si dichiara scettico a riguardo) per una gestione socialmente responsabile ed economicamente mirata degli investimenti dei fondi pensione gestiti anche dalle organizzazioni sindacali. Gallino non prende però in esame, come possibile via di uscita dal “finanzcapitalismo”, la possibilità di adottare la codeterminazione come modello alternativo al sistema anglosassone di corporate governance: eppure il sistema tedesco, seppure certamente anch’esso criticabile, sembra funzionare, mentre il modello anglosassone – che, come noto, punta a massimizzare il valore finanziario dell’impresa a esclusivo vantaggio degli azionisti, e presuppone il comando monocratico del management sui dipendenti – è certamente responsabile della finanziarizzazione spinta delle aziende, e quindi della crisi attuale.
In Germania i lavoratori (inscritti o meno al sindacato) da una parte eleggono il consiglio di fabbrica come organismo di difesa sindacale, dall’altra eleggono anche dei loro rappresentanti nel consiglio di sorveglianza delle imprese – senza però avere alcuna partecipazione al capitale e all’utile dell’impresa stessa -. Il consiglio di sorveglianza è un organismo che ha compiti rilevantissimi: definisce le strategie, nomina il consiglio di gestione, approva i bilanci e decide sulle operazioni straordinarie, come le fusioni, le ristrutturazioni, le acquisizioni e le cessioni, e la delocalizzazione delle unità produttive.
Noi suggeriamo che la democrazia dal basso nelle aziende – anche se ovviamente è molto difficile da conquistare – può rappresentare una delle principali (se non la principale) soluzione per uscire dalla crisi. La questione è tanto più attuale considerando l’attenzione crescente sui cosiddetti beni comuni, cioè sulle risorse condivise e tendenzialmente non esclusive e non rivali, come le conoscenze, l’informazione, l’ambiente, Internet e le reti, analizzate in profondità dalla socio-economista Elinor Ostrom, premio Nobel dell’economia[7]. La “scoperta” principale della Ostrom è che, contrariamente a quanto sosteneva Garrett Hardin nella “tragedia dei beni comuni”, le comunità sono in grado di gestire in maniera efficiente e sostenibile i beni comuni, come le foreste, i pascoli, le acque, le zone costiere di pesca, e di evitare così la tragedia del loro sovra-consumo competitivo e del loro esaurimento. Ostrom introduce elementi di ottimismo per quanto riguarda la gestione dei commons: le comunità – non sempre ma a certe condizioni, cioè quando sono in grado di autoregolarsi – possono gestire i commons in maniera più efficiente e sostenibile dei privati e dello stato perché ne hanno esperienza diretta, perché acquisiscono competenze specifiche, e perché sono molto motivate a gestire in maniera ottimale risorse che per loro sono indispensabili e preziose. La vera tragedia accade invece quando i privati e lo stato gestiscono i beni comuni generando sprechi, inefficienze e privilegi. La studiosa dell’università dell’Indiana si esprime quindi a favore di un’economia policentrica[8]. basata sulla gestione comunitaria dei commons, sul mercato (per quanto riguarda i beni privati) e sull’intervento pubblico.
In Italia i referendum sull’acqua hanno dimostrato che la grande maggioranza dei cittadini apprezza il valore dei commons, e che l’opinione pubblica è ampiamente a favore della gestione pubblica e non privata di un bene così prezioso come l’acqua. A Napoli il Comune ha deciso di sperimentare forme partecipate di gestione dell’acqua. Ma la democratizzazione dell’economia riguarda anche e soprattutto un settore economico sempre più rilevante, quello immateriale: Internet, Wikipedia, il software libero non hanno padroni privati né pubblici ma sono gestiti dalle comunità di scienziati, ricercatori e utenti. E mettono a disposizione del pubblico globale informazioni e conoscenze libere, e la possibilità di comunicare direttamente senza filtri.
La sinistra italiana dovrebbe cominciare a discutere in maniera approfondita le questioni fondamentali dell’economia dei beni comuni e della democrazia nell’economia[9]. Questo dibattito risulterebbe importante per ricominciare a focalizzare l’attenzione sull’economia politica (come ci indica senz’altro Gallino) e per elaborare proposte di fuoriuscita dalla crisi in una prospettiva non sempre e solo difensiva, e non sempre rinunciataria. Il problema della democrazia nell’economia è cruciale non solo per ragioni etiche e sociali – cioè per contrastare la concezione del lavoro come merce da utilizzare, da comandare a piacere, e da dismettere quando si vuole – ma anche perché la codeterminazione funziona già e, nonostante le ambiguità e i limiti, funziona anche abbastanza bene, e costituisce un argine alle operazioni speculative e alle delocalizzazioni selvagge.
Secondo l’ETUI la codeterminazione diventa particolarmente necessaria quando, come avviene attualmente, le maggiori società non hanno più un “padrone” e hanno invece come proprietari degli investitori istituzionali che – come le banche d’affari, i fondi pensione, gli hedge fund e i private equity – hanno solo degli obiettivi finanziari di alto rendimento nel breve o brevissimo termine[10]. I grandi investitori istituzionali hanno in portafoglio centinaia o migliaia di titoli di diverse società e non entrano nel merito della loro gestione: sono “proprietari assenti” di aziende da cui estraggono una rendita finanziaria – come lo stesso Gallino ci spiega in maniera magistrale -. In questo contesto la difesa e lo sviluppo delle attività produttive riguarda soprattutto i lavoratori, che dovrebbero quindi avere il diritto di co-decidere nei board delle imprese[11]. Germania docet. La cogestione dovrebbe riguardare in generale tutti i maggiori stakeholder: per esempio, per difendere, sviluppare e migliorare il welfare è necessario che anche gli utenti possano partecipare agli organismi direttivi degli enti pubblici.
E’ paradossale che questi temi strategici, che ci sono suggeriti dall’esempio dei paesi europei che stanno uscendo prima e meglio degli altri dalla crisi, siano praticamente ignorati anche da un sindacato molto impegnato nella difesa del lavoro come la Cgil. Eppure il sindacato sa perfettamente (anche dal caso Fiat) che l’attività puramente rivendicativa, le lotte e gli scioperi, purtroppo hanno scarso successo nei tempi di crisi, soprattutto se le aziende globali possono delocalizzare come vogliono. Sarebbe invece molto importante, se non decisivo, avere il diritto stabilito dalla legge di essere informati e consultati sui piani aziendali, e di avere voce nel board dell’impresa. Sul piano giuridico in Italia la co-determinazione sembra possibile grazie all’articolo 46 della Costituzione per cui “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende”. Sarebbe quindi davvero positivo che le migliori intelligenze cominciassero a discutere della democrazia nell’economia, sia sul piano economico che politico. Anche per evitare che invece nel futuro possano prevalere soluzioni neocorporative, come quelle che prevedono la partecipazione dei lavoratori agli utili o al capitale dell’impresa, senza però che sia concesso loro alcun potere decisionale nei board.
*Giornalista economico e saggista.